Luogo di partenza e di destinazione nell’emigrazione italiana

Di Antonio Cortese

Online e in Open Access l'analisi statistica delle fasi emigratorie italiane. L'articolo è un sunto dei diversi contributi e aggiornamenti pubblicati dall'autore sul sito di Altreitalie negli ultimi anni.

Premessa

Le fonti statistiche ufficiali concernenti l’emigrazione italiana consentono di collegare le regioni italiane dalle quali hanno tratto origine i flussi in uscita ai principali paesi di destinazione. Si deve far riferimento all’Annuario Statistico dell’Emigrazione, pubblicato dal Commissariato Generale dell’Emigrazione, per gli anni dal 1876 al 1925 e, per gli anni successivi, agli Annuari dell’Istat organismo creato nel 1926 (si parte dai volumi “Statistica delle migrazioni da e per l’estero” per gli anni dal 1926 al 1938 per arrivare all’”Annuario di Statistiche Demografiche” per gli anni dal 1959 al 1976). Gli anni dal 1876 al 1976 individuano l’arco di tempo solitamente considerato negli studi sull’emigrazione italiana. Flussi migratori verso l’estero vi sono naturalmente stati anche negli anni dal 1861 al 1875 ma si ritiene che i dati scaturiti dalle indagini allora effettuate non siano pienamente affidabili. Va poi tenuto presente che nel corso degli anni Settanta dello scorso secolo l’Italia ha conosciuto un’inversione di tendenza nei movimenti migratori: da paese di emigranti è diventato gradatamente area di immigrazioni adeguando, anche sotto questo profilo, la propria situazione a quella dei paesi maggiormente sviluppati. Già in precedenza comunque si era realizzata una grande svolta quando, dopo gli anni del boom economico dal 1958 al 1963, erano state le migrazioni interne che, con un sensibilissimo travaso di popolazione lungo la direttrice Sud-Nord, avevano cominciato a soppiantare quelle verso altri paesi.

Tav. 1 Espatri dalle regioni nelle tre fasi dell’emigrazione italiana (a)

Regioni

Prima fase

Seconda fase

Terza fase

Totale

Piemonte e Valle d’Aosta

 

1.540.164

 

533.085

 

141.669

 

2.214.918

Lombardia

1.342.759

492.579

475.799

2.316.137

Liguria

223.156

116.099

81.876

421.131

Trentino-Alto A.

-

119.245

102.989

222.234

Veneto

1.822.793

392.157

856.844

3.071.794

Friuli V. G.

1.407.793

378.631

386.685

2.173.109

Emilia-Romagna

690.175

188.955

283.224

1.162.354

Toscana

763.156

258.906

172.633

1.194.695

Umbria

164.540

43.341

60.728

268.609

Marche

390.157

114.378

172.693

677.228

Lazio

205.055

78.556

293.352

576.963

Abruzzo

595.556

157.342

464.505

1.217.403

Molise

308.035

62.620

248.344

618.999

Campania

1.475.979

319.496

936.561

2.732.036

Puglia

382.897

155.632

856.503

1.395.032

Basilicata

385.693

67.203

242.456

695.352

Calabria

879.031

281.480

752.372

1.912.883

Sicilia

1.352.962

449.093

785.056

2.587.111

Sardegna

97.759

35.666

109.430

242.855

Totale

14.027.660

4.294.464

7.423.719

25.700.843

Fonte: CGE e Istat

  1. Per alcuni degli anni tra il 1928 e il 1963 c’è un esiguo numero di casi per i quali non è stato possibile individuare la regione dalla quale provenivano gli emigranti.

Per una migliore comprensione di quanto esporrò, reputo utile ricordare che per le nostre migrazioni verso l’estero si è soliti individuare tre fasi[1]. La prima giunge sino alla prima guerra mondiale e talvolta la si suddivide in due periodi: il primo arriva sino alla fine dell’Ottocento ed è caratterizzato da una discreta consistenza dei flussi ma soprattutto da una loro tendenza decisamente crescente (circa 5 milioni di espatri ripartiti in maniera pressoché uguale fra le due correnti, continentale e transoceanica; due emigranti su tre provengono dalle regioni settentrionali), il secondo è quello della “grande emigrazione” (quasi 10 milioni di espatri con la corrente transoceanica che registra un eccezionale sviluppo grazie al preponderante contributo delle regioni del Mezzogiorno). La forte abbondanza dell’offerta di lavoro (l’avvio del processo di industrializzazione all’inizio del Novecento non ha prodotto grossi effetti) e le politiche liberali adottate per molti decenni dai governi post-unitari, spiegano l’andamento del movimento migratorio in questa prima fase. Ad emigrare sono soprattutto contadini in buona parte analfabeti.

Nell’intervallo tra le due guerre si registra un contenimento dei flussi in uscita: c’è la chiusura decisa da alcuni dei tradizionali paesi ospitanti e l’avversione manifestata nei confronti dell’emigrazione dal regime fascista.

Dal 1946 sino alla metà degli anni Settanta- siamo nella terza fase – il flusso in uscita torna a rafforzarsi (7,5 milioni di espatri). Nei primi anni del secondo dopoguerra, in un paese logorato dalle vicende belliche, si deve fronteggiare una situazione di “disoccupazione di massa” aggravata dal graduale rientro di più di un milione di prigionieri di guerra. I governi repubblicani si impegnano, per il tramite di numerosi accordi con altri paesi, per il rilancio dei flussi emigratori. Le migrazioni verso i paesi europei economicamente più favoriti sono quelle che svolgono un ruolo preminente; il peso dell’Europa che già nel decennio 1951-60 supera il 60 per cento del totale degli espatriati, nel decennio successivo si attesta sopra l’80 per cento. Molti emigranti partono in particolare dalle aree rurali e densamente abitate del Meridione.

Sul contributo delle diverse regioni fanno luce i dati riportati nella Tav. 1. Si tratta di valori assoluti che vanno evidentemente confrontati con quelli relativi alla popolazione residente nelle singole regioni e che riflettono le differenti situazioni dal punto di vista delle condizioni socio-economiche[2].

Per un giudizio sul legame che si è spesso creato tra un comune italiano di partenza e una precisa località del paese estero di destinazione (mi riferisco all’effetto delle cosiddette “catene migratorie”; con questo termine si intende qualsiasi movimento generato da scambi di notizie e contatti personali che porta familiari, parenti o amici a raggiungere un individuo già emigrato in precedenza e a usufruire del suo aiuto e della sua assistenza), ci si deve rifare a studi specifici. Il mio proposito è stato principalmente quello di evidenziare una serie di casi per i quali mi è stato possibile ricostruire questi specifici percorsi migratori.

Nel caso in particolare di grandi città che hanno ospitato tanti nostri connazionali, ho rilevato che non si debba parlare tanto di catene migratorie quanto piuttosto di un forte desiderio di riaggregazione sulla base di una comune provenienza maturato dopo l’arrivo nel paese estero. È stato giustamente osservato che “muovendosi sul difficile confine tra integrazione e assimilazione, chi arriva in una nuova terra deve sempre fare i conti con le persone, i gruppi e i comportamenti che tendono a rifiutarlo ed escluderlo – per esempio attraverso le differenze di lingua e costumi, la competizione vera o presunta nel lavoro, gli stereotipi e il razzismo, le paure proprie e degli altri – sia con quelli che vogliono a tutti i costi trasformarlo in un cittadino a tutto tondo del paese ospitante, cancellando passato e tradizioni. Le comunità di immigrati che si formano nell’emigrazione appaiono così camere di compensazione, luoghi di difesa e di organizzazione del pensiero e delle parole, di costruzione e realizzazione di strategie per salire la scala sociale, di elaborazione e ibridazione degli usi e costumi, di definizione di uno spazio fisico dove aggregarsi e trovare collaborazione, solidarietà, comprensione”[3].

Da ultimo ho collocato in un gruppo residuale vicende migratorie piuttosto singolari nelle quali la piena corrispondenza tra luogo di partenza e luogo di destinazione ha svelato modalità del processo migratorio piuttosto particolari.

L’analisi a livello regionale

Piemonte e Valle d’Aosta

Come evidenziano i dati esposti nella Tav. 1, è soprattutto nella prima fase dell’emigrazione italiana che gli espatri dal Piemonte hanno avuto un ruolo assai importante. Tra il 1876 e il 1915 quasi il 40 per cento dei flussi in uscita dall’Italia e diretti in Francia, sono stati generati da questa regione. Negli anni fra la crisi agraria e la Prima guerra mondiale le partenze verso la Provenza interessarono in particolare l’area delle Alpi Cozie. “Per le Alpi Cuneesi le alternative all’emigrazione erano di fatto nulle. L’eccedenza di popolazione ed i condizionamenti dell’agricoltura montana implicavano di necessità la discesa in valle di una parte degli abitanti per l’integrazione del reddito familiare. L’assenza di occasioni di lavoro nella subalpe italiana portò i montanari cuneesi a scendere dal versante francese”[4]. È perciò in questo ambito che mi riprometto di individuare situazioni meritevoli di essere riferite.

Esemplare è il caso di due comuni montani proprio della provincia di Cuneo: Roccabruna, dal quale è provenuto il gruppo più numeroso degli italiani trasferitisi a Grasse, “centro mondiale delle essenze”, nel dipartimento delle Alpi marittime, e Peveragno da dove sono partite le filatrici insediatesi a Tran-en-Provence nel dipartimento di Var, nella filanda Garnier[5]. Tra il censimento italiano del 1881 e quello del 1911 si registra in entrambi i comuni un netto calo della popolazione residente nonostante l’ampio saldo positivo del movimento naturale. Curiosa è stata inoltre l’esperienza di un quartiere di Nizza nel quale per la forte presenza di domestiche originarie di Limone Piemonte, si parlava il dialetto della cittadina piemontese[6].  

Anche dalle Valli Valdesi (Val Pellice, Valle Germanasca e bassa Val Chisone) con 14 comuni nelle Alpi Cozie in provincia di Cuneo, c’è stata emigrazione. Nel 1893 un piccolo gruppo di valdesi provenienti dalla Valle Germanasca ha fondato la cittadina di Valdese che oggi conta circa 5 mila abitanti, nella contea di Burke nel North Carolina. Usciti dalle strette valli piemontesi altri valdesi hanno saputo far prosperare, nello stesso periodo, sei colonie in Uruguay (Valdense, Cosmopolita, Artilleros, Riachuelo, Ombues de Lavalles e Nieto) superando continue difficoltà ed offrendoci un esempio di ben riuscita colonizzazione[7].

Come risulta dalla Tav. 1, sono più di 2 milioni i migranti partiti dal Piemonte tra il 1876 e il 1976. Si è di recente calcolato che i piemontesi e gli oriundi che vivono all’estero sarebbero oggi circa 6 milioni, la metà dei quali si troverebbero in Argentina meta di destinazione molto importante per la regione soprattutto nella prima fase dell’emigrazione italiana (negli anni dal 1876 al 1915). Sono stati individuati 59 gemellaggi tra comuni piemontesi e città argentine, 23 dei quali coinvolgono comuni della provincia di Cuneo: di questi ultimi 15 riguardano centri abitati della provincia di Córdoba e 8 località della provincia di Santa Fe confinante con quella di Córdoba. A testimonianza dello stretto rapporto che si è creato tra i migranti provenienti dalla provincia di Cuneo con quella di Córdoba, segnalo tre gemellaggi: quello del comune di Caraglio con Laboulaye, quello di Caramagna Piemonte con Alicia e quello di Revello con Pozo del Mollo[8].

Un caso singolare è quello del comune di Avigliana nella provincia di Torino. Nel 1888 due piemontesi di questo comune, Modesto Gallo, falegname e Ferdinando De Matteis, muratore, giunsero in Sudafrica portando con sé cinque casse di dinamite[9]. Con la collaborazione di un connazionale lombardo aprirono una fabbrica dedita alla produzione di dinamite. “La scoperta di numerose miniere d’oro nella zona di Witwatersrand (Johannesburg) aveva infatti provocato l’affermarsi di un redditizio mercato della dinamite, indispensabile all’epoca per penetrare nel sottosuolo aurifero. A due anni dell’apertura della fabbrica, arrivarono nel Transvaal per lavorare sei ragazze di Avigliana, ingaggiate dalla proprietà per avvolgere la dinamite nella carta paraffina e darle la forma definitiva. Nel giro di qualche anno esse furono raggiunte da altre venticinque ragazze che si stabilirono nella zona lavorando sempre per la fabbrica di esplosivi. Tra il 1890 e il 1897 diciannove operaie si sposarono con altri connazionali, dando inizio alla formazione di una piccola comunità avigliese”[10].

Nella prima fase della nostra stagione migratoria, dal 1876 al 1915, sono partiti per l’estero 1.715.566 migranti: 660.321 (il 38 per cento del totale) proveniva dal Piemonte. “La fuga dal Piemonte diventava ricorrente, ma la cautela era la regola: una vera catena familiare o di villaggio si stabiliva tra i candidati alla partenza e coloro che già in qualche luogo si erano fermati e si trovavano bene”[11]. È quanto accaduto nella Valle della Chevreuse, non lontana da Parigi, dove esistevano cave di pietra meuliére[12]. Un intraprendente emigrante piemontese proveniente dal comune di Giaveno, in provincia di Torino, centro più importante della Val Sangone, vi acquistò dei terreni negli anni Venti per aprire delle nuove cave. Tramite il parroco della Maddalena, frazione di Giaveno, invitò i compaesani a venire a lavorare in Francia e questi vi giunsero numerosi[13].

Per quanto riguarda la Valle d’Aosta, riservo inizialmente brevi cenni all’emigrazione delle ragazze che furono impiegate nelle latterie e vaccherie di Annecy ed a quelle che lavorarono nelle fabbriche di orologi di Besançon[14]. Particolare è stato l’esodo di numerosi giovani che, favoriti dal bilinguismo, si sono trasferiti nella regione parigina facendo capo ad un caffè-albergo della capitale francese gestito da valdostani, che divenne luogo di incontro e smistamento dei nuovi arrivati. Una ristretta élite di questi immigrati riuscì ad accaparrarsi un’attività molto particolare: quella di vetturino per conto delle due società che controllavano il traffico urbano delle vetture di piazza a cavalli. I loro figli furono i primi a diventare autisti di taxi. Nacque una rete migratoria che alimentò la professione e si organizzò fin dalla zona di partenza: nei primi anni del Novecento in Valle d’Aosta esistevano dei centri dove i giovani si riunivano per studiare la topografia di Parigi[15].

Dopo la chiusura delle frontiere da parte degli Stati Uniti tra il 1921 e il 1939 (piccole colonie valdostane erano sorte a New York, Chicago, in alcune contee del Colorado e nella Napa Valley in California), particolare è stato l’esodo di numerosi giovani che si sono trasferiti nella regione parigina (Aubervilliers, la Courneuve e Lavallois-Perret). Quest’ultimo comune dell’Hautes-de-Seine, che confina con il XVII arrondissement di Parigi, è ricordato come il più popoloso comune valdostano al mondo per il gran numero di emigrati e di discendenti di emigrati che lo abitano[16].

Lombardia

La Lombardia è la più popolosa delle regioni italiane. Per restare agli anni presi in esame, è sufficiente ricordare che la popolazione residente censita nel 1871 risultava pari al 12, 5 per cento di quella nazionale e che questa percentuale è salita con la rilevazione censuaria del 1971, al 15,8 per cento. Il contributo della regione ai flussi in uscita dal nostro paese è stato però inferiore al suo peso demografico. A favorire l’esodo è stato in particolare lo spopolamento delle campagne e della fascia alpina. È stata in particolare individuata una vasta area migratoria che dalle vallate biellesi si estende, attraverso la Valsesia, alle vallate che circondano i laghi lombardi comprendendo anche l’area del ticinese[17].

È importante sottolineare il ruolo determinante del mestiere nella scelta delle destinazioni, delle catene migratorie e delle reti sociali costruite a loro volta dal mestiere. Nel caso della Lombardia, “l’adozione della prospettiva della catena migratoria professionale, coniugata con quella di una ricerca condotta anche sui luoghi di arrivo dell’esodo, ha prodotto i suoi risultati più significativi nei confronti di due categorie: quella degli operai tessili che nel comasco crearono attraverso l’emigrazione la propria posizione di lavoratori specializzati, e quella degli edili del varesotto che approfittarono della rivoluzione dei trasporti per inserirsi in un mercato del lavoro intercontinentale”[18]. Esemplare il caso dell’ampia presenza di lavoratori provenienti dal comune di Cuggiono, in provincia di Milano, nella Little Italy che si formò a Saint Louis nel Missouri. “La loro partenza negli anni Novanta dell’Ottocento si colloca all’interno di un contesto di generalizzato ricorso al lavoro temporaneo all’estero da parte di squadre di uomini che avevano lavorato alle dipendenze di un impresario edile del paese”[19].

La realizzazione dei valichi alpini ha fornito sbocchi lavorativi importanti per l’emigrazione originata dalle regioni settentrionali e in misura ampia proprio dalla Lombardia. Sempre in ambito ferroviario si può ricordare il caso degli esperti mastri del comune di Marchirolo, in provincia di Varese, che lavorarono in Indocina per la costruzione della famosa linea del Tonchino[20]. Va da sé che anche negli ultimi due casi citati, sono uscito dall’ambito dell’obiettivo principale che mi ero proposto, quello di individuare un preciso collegamento tra località di partenza e meta di destinazione nella quale i nostri emigranti hanno talvolta deciso di fissare la loro dimora abituale. A dimostrazione dell’ampio ventaglio di destinazioni che ha caratterizzato l’emigrazione lombarda, si può citare il caso degli operai bergamaschi che lavorarono nelle miniere d’oro del Western Australia: ad indirizzarli dall’altra parte del mondo furono le ditte inglesi e belghe che nel 1874 avevano acquisito le miniere di zinco della Val Seriana e che erano nel contempo proprietarie delle miniere australiane. Sempre in Australia si è trasferito un folto gruppo di coltivatori valtellinesi che nel Queensland da semplici tagliatori di canna da zucchero sono riusciti a diventare proprietari di vaste piantagioni[21].

Ricordo la vicenda dell’ingegnere Giuseppe Telfener che in Italia aveva acquisito grande esperienza in campo ferroviario. Il suo matrimonio con un’americana imparentata con il magnate John W. Mackay preluse alla costituzione della “New York, Texas and Mexican Railway Company” che si pose l’obiettivo di unire per ferrovia le città di Brownsville e Richmond, in Texas, prima tratta della ferrovia New York-Città del Messico. A tal fine Telfener ingaggiò 1.200 operai italiani in gran parte lombardi (nutrito il gruppo di quelli provenienti dai comuni di Albizzate e Sumirago oggi in provincia di Varese). I problemi però non mancarono poiché si scoprì che la compagnia non aveva titoli per acquisire la terra adiacente alla linea (era una prassi negli USA) che pensava di affittare a modico prezzo alla manodopera italiana garantendosi così una base solida per il mantenimento della linea stessa. Questa fu comunque completata e ufficialmente inaugurata nel 1882; alla ferrovia fu affibbiato l’appellativo di “Macaroni Railroad”. Agli operai italiani che decisero di restare nell’area (l’epicentro fu Waco nella contea di Mc Lannan in Texas), toccò di assumere le vesti di “agricoltore” e “rancher”[22].

Liguria

Probabilmente è la regione con la più alta propensione migratoria grazie alla vicinanza con la Francia e al ruolo marittimo di Genova. A metà dell’Ottocento le maggiori comunità di immigrati italiani nelle Americhe sono liguri e una complessa rete commerciale e marittima le lega alla città natale[23]. Grazie a questa base il porto di Genova diventa la porta per l’emigrazione dall’Italia unitaria. La città si arricchisce e solo i liguri del Levante proseguono a varcare gli oceani. Dalla fine dell’Ottocento Genova è uno dei vertici del triangolo industriale e attrae forza lavoro[24]. Nel secondo dopoguerra le partenze dalla Liguria rappresentano solo l’1,1 per cento di quelle nazionali.

Riservo solo un breve cenno al Caminito, “stradina”, celebre e pittoresco angolo del quartiere italiano della Boca, alla foce del Riachuelo, nella città di Buenos Aires, dove si fermarono i primi immigrati genovesi. “Fra le cause che indussero numerosi liguri a spingersi prima dell’inizio dell’emigrazione transoceanica di massa nell’America meridionale, un posto di rilievo ebbe la loro abilità nel campo della navigazione, grazie alla quale riuscirono ad assumere il controllo del traffico degli estuari e dei fiumi del bacino del Rio della Plata e, per un certo periodo, anche delle rotte commerciali col Brasile, l’America settentrionale e le Antille”[25].

Sono stati sempre liguri i primi italiani che si sono insediati a Waterbury, quarta città dello stato del Connecticut per popolazione posta al centro di un distretto industriale, la Naugatuck Valley. Nativi di Moconesi, in provincia di Genova, essi si sono distinti nella coltivazione, distribuzione e vendita al dettaglio di frutta[26].

Mi interessa infine soffermarmi su Altare, piccolo paese della provincia di Savona, immerso nei boschi che circondano il Colle di Cadibona, punto di demarcazione tra Alpi e Appennini. La cittadina è nota, non solo in Italia, per essere sede di una delle più antiche tradizioni del vetro soffiato lavorato a mano. Alla base dei suoi flussi migratori verso il Sudamerica vi è la coincidenza tra i periodi delle grandi migrazioni e i periodi di crisi nella storia del vetro di Altare, che ha creato i presupposti per lo sviluppo di una catena migratoria professionale in tre fasi storiche.

Nella prima metà dell’Ottocento due consistenti gruppi di vetrai altaresi (il primo formato da 24 giovani, il secondo da 48 vetrai al quale si sono aggiunti successivamente altri maestri) sono salpati dal porto di Genova per raggiungere rispettivamente Lima e Rio de Janeiro dove hanno realizzato le prime vetrerie.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento altre vetrerie sono state fondate in Argentina (Buenos Aires e Rosario), in Brasile (ancora Rio de Janeiro) e in Uruguay (Montevideo).

Nel secondo dopoguerra, anche per il timore che la lavorazione a mano potesse progressivamente spegnersi in Italia a favore della produzione meccanica, si è registrato un forte incremento delle partenze dei vetrai, poi seguiti dalle famiglie, verso l’Argentina: la “Cristaleria San Carlos” fondata dagli altaresi a San Carlos Centro, a 110 Km. da San Jorge nella provincia di Santa Fe, ha rilevato la “Cristaleria Liguria”, altra vetreria altarese e rappresenta oggi l’unica realtà argentina di lavorazione artigianale del cristallo. Dal 2009 San Carlos Centro è gemellata con Altare[27].

Trentino – Alto Adige

Tenuto conto dei limiti che hanno riguardato, sino al 1925, la produzione di dati statistici a cura del Commissariato Generale dell’Emigrazione, prendo in considerazione solo i flussi migratori generati dalla provincia di Trento. L’esodo, pur se contenuto sotto il profilo quantitativo in ragione del limitato peso demografico dell’area, ha riguardato un ampio ventaglio di destinazioni. Da una parte c’è stata la partecipazione degli emigranti trentini alla realizzazione di grandi opere in Europa (trafori e ferrovie), Asia, Africa (Suez) e Americhe (ferrovie e poi il canale di Panama)[28]. Occorrerebbe in proposito richiamare il ruolo determinante del mestiere nella scelta delle catene migratorie, già evocato. Dall’altra c’è stata la ricerca della terra: in Brasile, Argentina, Messico, Stati Uniti e Australia. Inizialmente, comunque, i flussi migratori hanno riguardato il Tirolo, il Vorarlberg e due stati vicini, la Svizzera e la Germania[29].

Riservo attenzione a due specifiche esperienze. A seguito del Congresso di Berlino, dopo il 1878, prese forma un’emigrazione molto particolare diretta verso la Bosnia-Erzegovina. “Dopo che l’impero asburgico aveva assunto l’amministrazione dell’area balcanica furono intraprese alcune forme di colonizzazione con il tentativo di tenere sotto controllo la pressione musulmana”[30]. Vennero organizzati treni speciali per il trasporto delle famiglie trentine. Nell’area di Mahovhlijani si realizzò un vero e proprio villaggio trentino con migranti provenienti dal comune di Aldeno. Famiglie partite dai comuni di Roncegno, Borgo Valsugana e Ospedaletto si sono insediate nella zona di Banja Luca. Altre originarie del comune di Nave San Rocco hanno raggiunto Konjie in Erzegovina.

Mi sposto dall’altra parte del mondo: la comunità trentino-australiana conta oggi circa 6 mila unità. A creare la prima piccola comunità è stato uno sparuto gruppo di uomini del comune di Prezzo che, dopo la scoperta dell’oro, giunsero nel 1848 nello stato di Victoria. In questo stesso stato, negli ultimi anni del XIX secolo, i trentini hanno fondato un insediamento denominato “Nuova Trento” che ha avuto un’esistenza effimera. Negli anni Venti del successivo secolo si è invece formato a Myrtleford (Victoria) un più compatto nucleo di immigrati trentini provenienti dal comune di Vallarsa (è oggi attivo un gruppo folcloristico le cui esibizioni sono molto richieste in tutto il Victoria)[31]. È comunque negli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra che si registra il più intenso flusso migratorio dal Trentino. Dopo la firma, nel 1951, dell’accordo italo-australiano sull’emigrazione assistita, molti trentini hanno infatti beneficiato di passaggi per l’appunto “assistiti”.

Veneto

Il Veneto è la regione che ha maggiormente contribuito con 3.071.794 espatri ai flussi verso l’estero generati dal nostro paese. La diaspora veneta è stata una delle più significative[32].

Mi soffermo inizialmente su tre vicende migratorie piuttosto singolari. Comincio dall’abitato di Ploštine, paese situato in Slavonia (oggi in Croazia) ad un centinaio di chilometri a sud di Zagabria. È del 26 dicembre 1876 una lettera in croato, con allegato un depliant in lingua italiana, con la quale i latifondisti J. Reiser e F. Stein proposero ufficialmente agli italiani provenienti dalla montagna veneta e friulana di acquistare i lotti in cui erano state frazionate le loro proprietà. “La consueta e consolidata emigrazione bellunese in quegli anni subì un drammatico incremento. Condizioni atmosferiche particolarmente sfavorevoli avevano compromesso la già precaria economia di sussistenza della zona e reso così necessario, per sopravvivere, emigrare altrove, più di prima”[33]. Furono sette i villaggi fondati dagli immigrati italiani in Slavonia all’inizio del 1880. A Khuenovo Selo (l’antico nome di “Plostina”) si insediarono 45 famiglie (se ne aggiunsero in seguito altre di compaesani e parenti) provenienti dai comuni di Longarone, Soverzene e Ponte delle Alpi, in provincia di Belluno. All’inizio le difficoltà non mancarono ma i nostri emigranti si rimboccarono le maniche. Oltre all’agricoltura e all’allevamento, si dedicarono alla produzione di carbone e anche di mattoni, unico materiale con il quale si potevano realizzare case e stalle. Nel 1904 fu completata la costruzione della chiesa che fu dedicata a Sant’Antonio da Padova. Aggiungo che, sempre a partire dal 1880, altri migranti veneti provenienti da Orsago, Conegliano, Cordignano, Godega di Sant’Urbano, Villorba (provincia di Treviso), da Asiago (Vicenza) e da Mirano (Venezia), attratti dalla possibilità di trovare della terra da coltivare, si sono ad essi uniti stabilendosi nella stessa area (a Lipik e Pakrap nella regione di Požega)[34].

Alcuni anni fa il comune di Segusino in provincia di Treviso ha pubblicato un libro[35] per ricordare il gemellaggio celebrato nel 1982 con la cittadina di Chipilo, nello Stato di Puebla in Messico, che ospita una comunità di discendenti di coloni veneti (di Segusino per l’appunto) emigrati verso la fine del XIX secolo che rappresenterebbero circa l’80 per cento dell’attuale popolazione di circa 4 mila abitanti. È in ogni caso ad altra fonte che si deve far riferimento per ricostruire le tappe di questo processo migratorio[36]. Con una legge del 31 maggio 1875 il Congresso dell’Unione degli Stati messicani aveva accettato la proposta del Ministerio del Fomento, Colonización, Industria y Comercio per una nuova normativa in materia di immigrazione. Si trattava di una legislazione più puntualmente attenta alle esigenze concrete della colonizzazione che approntava una serie di garanzie teoriche perché gli insediamenti si potessero compiere in aree confacenti quanto a salubrità. A dispetto di quanto previsto da tali norme, le difficoltà che si affrontarono sul piano operativo furono notevoli. All’appello aderirono, fra le altre, numerose famiglie di Segusino che nel giugno 1882 arrivarono a Chipilo, nel distretto di Cholula. I migranti veneti giunti nel porto di Veracruz furono inizialmente accolti dalla colonia “Porfirio Diaz” di Barreto, nello stato di Morelos, che fu per loro una triste esperienza. Nel maggio del 2021 l’ambasciatore messicano in Italia, Carlos Eugenio Garcia de Alba Zepeda, ha visitato il comune del trevigiano dichiarando che il forte legame di fratellanza, amicizia, unione e solidarietà fra le due comunità continua ad essere vivo[37].

Vengo, da ultimo, al caso dei 1000-1500 italiani che alla fine dell’Ottocento lavorarono nelle cave della pietra meulière a Grigny, piccolo comune del dipartimento dell’Essonne in Francia. La maggior parte di essi provenivano dai comuni di Posina, Schio e Arsiero in provincia di Vicenza. Gli uomini arrivarono soli, e appena si ambientarono, fecero venire dal paese moglie e figli[38]. La società estrattiva più dinamica che operava nella zona era la “Buton Piketty” costituitasi alla fine dell’Ottocento. La grafia originale del nome era Pichetti, famiglia italiana emigrata da Veglio in provincia di Vercelli.

Un ruolo assai importante tra le mete di destinazione scelte dai migranti veneti lo ha avuto il Brasile. Il fattore principale che ha spinto le classi dirigenti brasiliane a una politica di attrazione di manodopera dall’Europa, è stata l’esigenza di popolare un territorio sterminato e a bassissima densità demografica. L’immigrazione è stata quasi esclusivamente convogliata verso le aree di produzione del caffè.

In Italia il Brasile è stato individuato come paese in cui ottenere terra, argomento non di poco conto per un esercito di partenti quasi esclusivamente rurale[39]. Che questo fosse l’obiettivo di gran parte di coloro che sbarcarono in Brasile è dimostrato dall’alta composizione familiare dei flussi, decisamente superiore a quella di quanti optarono per altre mete. Tale caratterizzazione fu peraltro favorita dal governo locale che, per assicurarsi la permanenza dell’immigrato, stimolò l’arrivo di nuclei familiari piuttosto che di singoli, ricorrendo, più di ogni altro governo del subcontinente, all’arma della copertura dei costi della traversata[40].

Inizio dal contributo fornito dalla provincia di Belluno importante serbatoio del flusso migratorio alimentato dal Veneto. Diversi comuni di questa provincia sono oggi gemellati con cittadine brasiliane. Ne segnalo alcuni.

Canale d’Agordo

Massaranduba (Santa Catarina)

Cencenighe Agordino

Massaranduba (Santa Catarina)

Falcade

Massaranduba (Santa Catarina)

San Tomaso Agordino

Massaranduba (Santa Catarina)

Vallada Agordina

Massaranduba (Santa Catarina)

Auronzo di Cadore

Ilópolis (Rio Grande do Sul)

Cesiomaggiore

Aratiba (Rio Grande do Sul)

Longarone

Urussanga (Santa Catarina)

Pedavena

Caxias do Sul (Rio Grande do Sul)

 

Non vi è alcun dubbio che i comuni brasiliani evidenziati siano oggi abitati in gran parte dagli eredi dei migranti provenienti dai comuni italiani. Massaranduba ospita i discendenti dei migranti arrivati dalla Valle del Biois tra il 1875 e il 1905[41]. In merito al legame tra il luogo di partenza e il luogo di destinazione, sono però convinto che esso si sia per lo più consolidato solo a distanza di tempo. Inizialmente le famiglie insediatesi nelle aree di colonizzazione agricola hanno vissuto spesso in condizioni di quasi assoluto isolamento. “Molti emigrati, i capofamiglia e le mogli, vissero fino alla morte nello stesso luogo che le loro fatiche avevano trasformato da boscaglia a campi coltivati, a orto e giardino, dove il duro lavoro li aveva sollevati dalla misera condizione iniziale e gli era stato possibile, per la prima volta dopo tanti anni, non rimpiangere l’abbandono del paese natio”[42]. Solo successivamente si sono spostati verso i centri abitati che andavano via via sorgendo anche per consentire ai loro figli di frequentare la scuola.

Ad Urussanga la comunità bellunese celebra ogni anno la Festa del Vino (“Ritorno alle origini”). Segnalo inoltre che il piccolo comune di Soverzene (con poco più di 300 abitanti), confinante con Longarone, ha recentemente stretto un “patto di amicizia” con Cocal do Sul, centro abitato che è stato costituito con una porzione di territorio staccata da Urussanga. La specificità di queste aree sta nel fatto che i nostri emigranti non si sono inseriti in comunità già formate ma hanno contribuito in modo determinante alla nascita dei centri abitati che si andavano costituendo. Oltre ad Urussanga, Caxias do Sul e Cocal do Sul, sono sorte Criciuma e Nova Belluno (oggi Sideropolis)[43].

Segnalo l’importante ruolo dei migranti veneti nella fondazione del piccolo centro di Caxias do Sul nel 1890 (è oggi una città che conta più di 500 mila abitanti). Rilevante è stato il contributo dei migranti provenienti dal comune di Pedavena: tra questi va ricordata la figura di Anna Rech fondatrice del distretto della città che ancora oggi porta il suo nome.

Recentemente il comune di Lamon, anch’esso in provincia di Belluno, ha celebrato un gemellaggio con quello di Iomerê nello stato di Santa Catarina per ricordare l’insediamento di un folto gruppo di suoi migranti nel comune brasiliano negli anni iniziali del secondo dopoguerra (tra il censimento del 1951 e quello del 1971 la popolazione di Lamon è passata da 7.413 a 4.214 abitanti)[44].

Alla crescita di Caxias do Sul hanno contribuito anche migranti partiti da un’altra provincia del Veneto. “Nella seconda metà dell’800 la zona di Schio nell’Alto Vicentino fu teatro di una industrializzazione senza precedenti in Italia. L’opificio Rossi fondato e poi preso in mano dal figlio Alessandro nel 1845, divenne un polo industriale di riferimento per l’economia italiana”[45]. Nel 1873 si è verificato uno sciopero delle maestranze dell’opificio. Nel 1890 ce ne è stato un altro. La risposta dell’impresa è stata durissima: nel primo caso è stato deliberato il licenziamento in massa di tutti gli scioperanti, nel secondo non solo sono stati licenziati i promotori dello sciopero ma è stato deciso il decurtamento del 30 per cento del salario di tutti i tessitori. Questa reazione ha provocato un esodo di massa. Da Schio, da Torrebelvicino e da altri comuni del circondario le partenze per l’estero sono state numerose. Almeno un centinaio di famiglie ha raggiunto la città di Caxias do Sul che, come ho più sopra precisato, ha accolto altri migranti provenienti dal Veneto. Gli operai della Rossi con un sapere lavorativo spendibile più all’interno di un lanificio che non sui campi coltivati, hanno dato vita a una cooperativa di tessitori, la Cooperativa Tecidos de Lã, successivamente trasformata nel Lanificio São Pedro. La zona di Caxias do Sul è diventata, grazie alla loro iniziativa, un importante polo industriale.

Mi soffermo ora sulle mete di destinazione prescelte dai migranti provenienti dai comuni della provincia di Treviso. Mi aiuta la recente pubblicazione di un volume nel quale vengono considerati i “gemellaggi” tra i comuni della provincia di Treviso e quelli (non solo brasiliani) che hanno accolto gli emigranti trevigiani[46]. Ne do notizia nella “scheda” che presento.

Numero

Comuni della provincia di Treviso

Comuni esteri

1

Conegliano

Garibaldi (Brasile)

2

Istrana

Lapa (Brasile)

3

Pederobba

Jacutinga (Brasile)

4

San Biagio di Callalta

Santa Tereza (Brasile)

5

San Polo di Piave

Arroio Trinta (Brasile)

6

Valdobbiadene

Encantado (Brasile)

7

Vittorio Veneto

Sâo Caetano (Brasile)

8

Vittorio Veneto

Cordignano

Cappella Maggiore

Criciuma (Brasile)

9

Cordignano

Pins- Justaret (Francia)

10

Fontanelle

Auterive (Francia)

11

Godega Sant’Urbano

Isle-en-Dodon (Francia)

12

Istrana

Grenade sur Garonne (Francia)

13

Motta di Livenza

Isle Jourdain (Francia)

14

Pederobba

Hettage Grande (Francia)

15

Ponte di Piave

Castelginest (Francia)

16

Sarmede

Cocumont (Francia)

17

Castelcucco

Cavaso del Tomba

Possagno

Paderno del Grappa

Crespano del Grappa

Borso del Grappa

Pederobba

Monfumo

Griffith (Australia)

18

Gaiarine

Botany (Australia)

19

Attivole

Castelfranco Veneto

Castello di Godego

Fonte

Loria

Resana

Riese Pio X

San Zenone degli Ezzelini

Trevignano

Vedelago

Guelph (Canada)

20

Cornuda

Nastschbach-Loipersbach (Austria)

21

Fregona

Court Saint Etienne (Belgio)

22

Pieve del Grappa

Folsom (USA)

23

Paderno del Grappa

San Fernando del Valle de Catamarca (Argentina)

 

I comuni coinvolti nei gemellaggi sono più di un terzo di quelli che compongono la provincia di Treviso e questo certifica che il flusso emigratorio della provincia non è stato sicuramente secondario a livello regionale.

È importante il ruolo di due paesi, Brasile e Francia. Nel primo caso si tratta di un flusso migratorio di fine Ottocento che ha riguardato in particolare lo stato di Rio Grande do Sul[47]. Ricordo che “al momento della partenza i nostri emigranti avevano portato seco qualche semenza con la speranza di poter coltivare anche in terra di destinazione quelle varietà di legumi o di cereali delle quali conoscevano pregi, difetti e necessità. Così fecero anche per la vite, trasportando piccole talee in quella terra americana sulla quale già crescevano altri vitigni figli anch’essi di un’immigrazione pregressa”[48]. Significativo risulta il gemellaggio tra Conegliano e Garibaldi in quanto la presenza di un’economia in cui la produzione vitivinicola è prerogativa di entrambi i territori: il comune di Garibaldi è stato definito la “capitale dello spumante”.

L’insediamento di comunità trevigiane in Francia è successivo. Le famiglie di Cordignano che si sono stabilite a Pins-Justaret, 13 km a sud di Tolosa, sono ad esempio arrivate tra le due guerre o subito dopo il secondo conflitto mondiale.

Quanto al gemellaggio di Griffith con i comuni dell’”Unione Montana del Grappa”, preciso che la cittadina australiana è situata nel Nuovo Galles del Sud ed ha una popolazione di circa venti mila abitanti, per la maggior parte di origini italiane con moltissimi trevigiani. Ricordo che in tre intervalli temporali (1926-1934; 1950-1953; 1952-1962), Treviso ha rispettivamente occupato il 5°, il 4° e il 6° posto nella graduatoria delle province italiane basata sul numero dei migranti trasferitisi in Australia[49].

Guelph, città dell’Ontario di circa 130 mila abitanti, non lontana da Toronto, ha conosciuto un rapido sviluppo industriale ed economico nel secondo dopoguerra. Secondo il censimento del 2016 gli italo-canadesi costituivano il 15 per cento della popolazione, con molti trevigiani provenienti dai comuni de “La Castellana” sulla destra del Piave.

Da ultimo, sottolineo la singolarità del gemellaggio tra Cornuda e Nastschbach-Loipersbach in Austria. La vicenda del gemellaggio, che ha contorni quasi romanzeschi, inizia nel 1983 quando uno studioso di Cornuda, il professor Giuseppe Corso, scoprì che nel 1860 il cornudese Carlo Carniel era emigrato nel piccolo paese austriaco con la moglie e lì aveva trovato lavoro e si era stabilito definitivamente. Dopo ave scoperto il ceppo austriaco dei Carniel, il professor Corso si attivò per stabilire dei contatti con i discendenti di Carlo e comprese che nel frattempo erano diventati oltre cento, conservando usi e costumi della terra di origine del loro antenato. Emerse inoltre che altre famiglie di cornudesi erano emigrate nella stessa zona a fine Ottocento[50].

Non mancano nella regione i segni di un flusso migratorio che ha naturalmente riguardato anche le altre due mete transoceaniche della prima fase della nostra storia migratoria (Stati Uniti e Argentina).

Prendo inizialmente spunto dal caso molto particolare che riguarda il comune di Rocca Pietore nell’Agordino, ai piedi della Marmolada. Una ricca signora americana in visita in Italia, Mrs. Cochran, decise di farsi costruire in patria una villa simile a quelle che aveva potuto ammirare durante il suo viaggio. Aveva conosciuto due fratelli, Luigi e Andrea Davare, eccellenti muratori nati a Ronch di Laste frazione del comune di Rocca Pietore. Offrì a loro e ad altri undici muratori, presumibilmente della stessa area, il passaggio per gli Stati Uniti. I due fratelli con le loro numerose famiglie e i compagni di lavoro si imbarcarono al porto di Genova e il 5 dicembre 1904 arrivarono in America. Costruita la villa di Mrs. Cochran (chiamata Lindon Hall) a Dawson centro abitato della contea di Fayette in Pennsylvania, vi si stabilirono, almeno in parte, creando una piccola comunità “ladina”[51].

Sempre negli Stati Uniti, è stata individuata l’esistenza di un “piccolo Cadore” a Clifton nel New Jersey, per l’insediamento, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, di migranti provenienti da Vodo Cadore, Borca di Cadore e San Vito di Cadore (provincia di Belluno).

“Non si era ancora esaurita la grande emigrazione verso il Brasile, quando, alla fine dell’Ottocento, da tutto il Bellunese, dal Basso Feltrino fino al Cadore e all’Agordino, iniziò un altro importante esodo di lavoratori, questa volta verso alcuni stati americani, in particolare la Pennsylvania, l’Ohio, l’Illinois, lo Utah, il New Jersey e la California; questi uomini venivano impiegati per lo più nelle miniere ma non mancarono anche contadini, commercianti e operai specializzati. Il fenomeno divenne ancora più consistente nel primi decenni del Novecento, con la parentesi della Grande Guerra e si esaurì prima del secondo conflitto mondiale… Alcune zone della provincia furono particolarmente interessate da questa emigrazione, sia per il fatto di essere più povere economicamente ma anche perché, come è risaputo, emigrante chiama emigrante: esse furono Fonzaso con Seren, Lamon e Sovramonte, l’Agordino, in particolare i comuni di Agordo e La Valle, ma ancor più Gosaldo e Rivamonte, tutto il Cadore, compresi Domegge, Cibiana, Pieve, Auronzo e le zone di Santa Giustina e San Gregorio. Come spesso accadeva, molti dello stesso paese si dirigevano nello stesso luogo e prestavano lavoro nella stessa miniera: ecco che così ritroviamo tanti agordini a Bingham, nello Utah, molti fonzasini ad Albia, Iowa, e a Irwin, Pennsylvania, molti cibianesi a San Mateo, California[52]. Era la paga del minatore ad attrarre gli emigranti in questo difficile e pericoloso lavoro, che in diversi casi fu loro fatale: sono molti coloro che persero la vita per crolli nelle gallerie o per scoppi e incendi”[53].

Flussi migratori verso l’estero sono stati generati da due comuni dell’Alto Agordino: Livinallongo del Col di Lana (“Fodom” è il toponimo ladino) e Colle Santa Lucia. Durante la guerra 1915-18 il primo fu in gran parte distrutto. La popolazione fu per qualche anno impegnata nella sistemazione delle proprie case e nella messa in coltura delle campagne. Ben presto però l’esodo verso l’estero sembrò una soluzione necessaria: le famiglie erano numerose, tanti i debiti dovuti alla guerra, il reddito agricolo scarso e altre occupazioni inesistenti. All’inizio degli anni Venti, furono molti quelli che decisero di emigrare in Argentina: falegnami, carpentieri, calzolai, ecc., risposero alla domanda di manodopera proveniente dal paese sudamericano, chiamando poi altri ai quali assicurarono lavoro e sistemazione. Quelli provenienti da “Fodom” si stabilirono a Villa Ballester, sobborgo di Buenos Aires, dove costruirono le loro case aiutandosi a vicenda; le famiglie di Colle Santa Lucia, fra di loro spesso imparentate (al censimento del 1921 il comune contava solo 754 abitanti), si sistemarono invece in altre località non molto distanti, sempre del cordone urbano della capitale argentina[54].

La graduatoria delle destinazioni nel secondo dopoguerra è guidata nel Veneto da Svizzera e Germania. Dal Comelico (area della provincia di Belluno che comprende cinque comuni: Comelico Superiore, Danta di Cadore, San Nicolò di Comelico, San Pietro di Cadore e Santo Stefano di Cadore) c’è stato in questo periodo un sostenuto flusso migratorio verso la Svizzera. Un’importante comunità si è formata a Frauenfeld, capitale del Canton Turgovia, la cui popolazione è passata, tra il 1950 e il 1990, da 11.114 a 20.204 abitanti.

Friuli - Venezia Giulia

Come le aree montane del Veneto, questa composita regione, e in particolare il Friuli, ha avuto una storia segnata fortemente dall’emigrazione motivata dall’esuberanza di braccia lavorative in una terra tutt’altro che prodiga di risorse economiche (la sua caratteristica più salente, almeno in una prima fase, è stata la temporaneità o meglio la stagionalità dei suoi flussi). Anche il Friuli seguì il medesimo percorso che nell’Ottocento portò verso una sempre maggiore mobilità e al balzo oltreoceano. Inizialmente ci si diresse verso il Brasile. Successive mete furono Argentina, Uruguay e Messico. Si partì comunque alla ricerca di un lavoro anche verso la Germania, l’Austria, la Francia, i Balcani e la Russia. Il parossismo di questo flusso interrotto dal primo conflitto mondiale riprese subito dopo per poi essere parzialmente sostituito dal popolamento dell’agro pontino e dall’invio di lavoratori nella Germania hitleriana, contrattato dal regime fascista. Le partenze oceaniche furono rilanciate nel secondo dopoguerra quando alle mete tradizionali in declino si aggiunsero Canada, Venezuela e Australia. In quest’ultima fase alle consuete migrazioni friulane si aggiunsero quelle giuliane, ingrossate dalla diaspora dalmata e istriana[55].

Venendo al tema oggetto di approfondimento, inizio richiamando una vicenda migratoria che riguarda la seconda fase (gli anni dell’intervallo tra le due guerre), quando, come ho già precisato, c’è stato un contenimento del flusso migratorio.

In realtà “l’emigrazione friulana in questa fase rappresenta un fenomeno complesso che prese corpo sotto l’influsso di diversi fattori. Ancora una volta fu anzitutto la miseria a spingere i friulani verso la strada dell’emigrazione, miseria in questo caso legata al venir meno del mercato classico del lavoro. Ad alimentare l’esodo contribuirono però altre ragioni quali l’oppressione, il malessere, il clima di sospetto e di persecuzione creati dal fascismo”[56]. In altre parole “il punto di partenza è lo scenario di morte e di desolazione che la grande guerra ha lasciato dietro di sé nella regione. Infrastrutture distrutte, industrie devastate, popolazioni che attendono 130.000 profughi vale a dire i friulani che erano fuggiti al di là del Piave dopo Caporetto”[57].

È in questo clima che è maturata l’esperienza di Tavagnacco. Da questo comune che nel decennio 1921-1931 perderà a causa dell’emigrazione più di mille abitanti su un totale di circa 8 mila, è partito un nucleo di comunisti che hanno deciso di stabilirsi a Montrouge periferia meridionale di Parigi dove hanno ottenuto solidarietà dai francesi per la loro partecipazione alla lotta contro il fascismo.

Ben prima in ogni caso, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, scalpellini friulani specializzati nella lavorazione della pietra, impiegati da tempo nella costruzione di ponti e massicciate in diverse regioni dell’impero zarista, sono stati ingaggiati per la costruzione di un tratto della Transiberiana. Al termine dei lavori un piccolo gruppo dei circa 300 friulani di Clauzetto, oggi in provincia di Pordenone, scelse di stabilirsi definitivamente ad Irkutsk, città che con il loro lavoro avevano contribuito a rendere meno isolata e più ricca[58].

Il Friuli, in special modo sul versante occidentale, ha avuto una marcata incidenza femminile nei flussi migratori complessivi. Donne emigranti hanno lavorato nelle fornaci, in lavori di costruzione (soprattutto come portatrici di malta), nelle faccende domestiche, come balie (quelle del comune di Fontanafredda, in provincia di Pordenone, nei primi anni del Novecento, raggiunsero Alessandria d’Egitto per lavorare presso famiglie benestanti europee dell’allora cosmopolita città africana), fantesche, operaie tessili o girovaghe. Singolare l’esperienza delle donne di Pantianacco, frazione del comune di Mereto di Tomba in provincia di Udine, che hanno varcato l’oceano per impiegarsi come infermiere negli ospedali di Buenos Aires[59].

Per quanto riguarda l’emigrazione giuliana, mi preme in particolare precisare che tra le due guerre c’è stato un notevole flusso migratorio dall’area di Monfalcone verso l’Argentina, “costituito soprattutto dagli operai dell’industria navale che, spinti dalla difficile situazione economica e dal clima politico del regime del tempo in Italia, trovarono largo impiego nei cantieri di La Plata per la realizzazione della flotta argentina”[60]. Un’altra importante ondata migratoria è stata quella che nel secondo dopoguerra ha portato circa un terzo dei 250-350 mila profughi istriani, fiumani e dalmati ad emigrare oltreoceano. Una quota importante ha raggiunto l’Australia con l’assistenza dell’International Refugee Organization. “Il maggior numero di esuli giuliani si è stabilito nello stato del Victoria, seguito poi dal New South Wales e dal Western Australia. Numerose famiglie fiumane hanno deciso di mettere su casa nei sobborghi che fanno parte della zona metropolitana di Melbourne, un numero discreto di famiglie si è stabilito a Geelong e solo un numero più esiguo è andato a vivere negli altri centri rurali del Victoria”[61].

Alla vicenda migratoria dei veneti in Croazia negli ultimi due decenni dell’Ottocento, si sono associate famiglie contadine provenienti da Tolmezzo (Udine) e da Erto e Casso, Caneva, Sacile, Polcenigo e Aviano (nell’attuale provincia di Pordenone).

Sulla base dei risultati censuari, la popolazione residente nel comune di Buia, in provincia di Udine, è quasi raddoppiata tra il 1871 e il 1921, passando da 5.606 a 11.373 abitanti, per poi diminuire sensibilmente – salvo un lieve recupero nel 1951 – ed in seguito stabilizzarsi a partire dal 1971 intorno alle 6 mila unità[62]. Questo comune è stato sempre caratterizzato da un sostenuto flusso migratorio verso l’estero. Inizialmente si è trattato di un’emigrazione stagionale con migranti che lavoravano in altri paesi dalla primavera all’autunno e poi rientravano[63]. Dopo la prima guerra mondiale si passa ad un’emigrazione “stabile” che spiega il calo demografico del quale ho fatto cenno e che ha riguardato in particolare la Francia. Dal 2008 il comune di Buia è gemellato con la cittadina francese di Domont (nel dipartimento della Val-d’Oise nella regione dell’île-de-France) nella quale migranti provenienti da Buia, poi raggiunti dai familiari, hanno trovato lavoro in impianti creati per la produzione di mattoni e laterizi. È uno dei tanti “Fogolârs Furlans” sparsi in vari paesi del mondo. Ne menziono nell’occasione un altro fondato nel 1965, quello dell’Unione Friulana Castelmonte a Pablo Podestà (periferia di Buenos Aires). A Castelmonte, frazione del comune di Prepotto in provincia di Udine, si trova il santuario della Beata Vergine. Una statua della Beata Vergine è arrivata anche nella chiesa di Pablo Podestà[64].

Emilia – Romagna

Delle tre diverse realtà che compongono la regione (Appennino tosco-emiliano, Pianura Padana, Riviera Romagnola), è la prima ad avere avuto una tradizione migratoria di lunga data che la apparenta alla Liguria. Nell’Ottocento è stato lo spopolamento montano a nutrire i primi flussi transoceanici e nell’Otto-Novecento quelli verso Francia, Svizzera e Belgio. Dopo l’Unità, Pianura Padana e Riviera Romagnola hanno compiuto un salto qualitativo e quantitativo quando i grandi lavori peninsulari ed europei per le infrastrutture, hanno attratto chi non possedeva terra. Inoltre da fine Ottocento i romagnoli si abituarono a lavorare nella cantieristica portuale e navale italiana e francese. Importante è stato il numero dei migranti per ragioni politiche[65].

Mi soffermo su pochi casi che enfatizzano il ruolo dell’Appennino tosco-emiliano sui flussi in uscita dalla regione. Un gruppo di famiglie partite da Ferriere, un piccolo comune della provincia di Piacenza, nell’Alta Val di Nure, verso la fine dell’Ottocento, si è insediato dopo un lungo viaggio, a Nogent-sur-Marne, nel dipartimento Val-de-Marne in Francia[66].

Concentrando l’attenzione su pesanti incidenti sul lavoro, si riesce talvolta a cogliere l’effetto prodotto da talune catene migratorie. È stata ad esempio di immani proporzioni, nel dicembre del 1909, la tragedia dell’incendio nella miniera di Cherry nell’Illinois: tra le oltre 200 vittime si sono contati 66 italiani, in prevalenza uomini e ragazzi dell’Appennino emiliano; 37 del circondario modenese di Pavullo e 7 della montagna bolognese. Sul Col de Verde, a Cozzano in Corsica, nel febbraio del 1927 viene travolta da una valanga un’intera squadra di boscaioli di Piandelagatti (alto Appennino modenese) che ha lasciato 13 dei suoi nella neve[67].

Nel 1948 è maturato un progetto industriale che ha portato la ditta Borsari di Bologna ad impiantare macchinari a Ushuaia nella Terra del Fuoco. L’obiettivo, per il quale sono emigrati dal nostro paese centinaia di operai reclutati per lo più sulla piazza del capoluogo emiliano, era quello di realizzare infrastrutture e progetti per conto della Base Navale presente nella città. I risultati sono stati piuttosto deludenti anche se le idee progettuali hanno costituito un momento importante per lo sviluppo della Terra del Fuoco nella quale si conservano i segni della colonizzazione italiana. Se in precedenza gli italiani giunti in Argentina avevano trovato un paese quasi vergine ed in un momento di durevole espansione economica, quelli che lo hanno raggiunto nel secondo dopoguerra hanno trovato una situazione radicalmente differente.

Alcuni dei nostri migranti hanno trovato lavoro negli enti governativi o hanno iniziato un’attività in proprio, altri si sono recati in aree meno deserte dell’Argentina. Solo pochi hanno fatto ritorno in patria[68].

In un libro recentemente pubblicato viene raccontata la storia migratoria del centro romagnolo di Meldola che è stato il punto di partenza, fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento, di una tipica catena migratoria che ha avuto come destinazione il Connecticut negli Stati Uniti, nello specifico la contea di Litchfield, un’area che per molti versi poteva vantare caratteristiche simili alle zone collinare e pedemontane del forlivese. Figura di spicco di questo flusso è stato Francesco Fabbri che nei primi anni del Novecento aveva costituito un’impresa di costruzioni garantendo lavoro ai migranti di Meldola. “La solidarietà tra compaesani, opportunità di impiego e strategie matrimoniali tra i figli e le figlie degli immigrati garantirono lo sviluppo di una stretta rete di vincoli. Essa era tanto estesa nella terra di origine quanto nella cittadina di approdo a Litchfield in un intreccio di relazioni tra meldolesi che fino alla seconda generazione di emigrati passò anche attraverso una precisa strategia matrimoniale tra compaesani”[69].

Toscana

In Toscana non si sono registrati tassi di emigrazione molto elevati. Le aree sub-appenniniche delle province di Lucca e Massa Carrara sono quelle che più hanno contribuito alla diaspora della regione, Tra il 1876 e il 1901 la provincia di Lucca si colloca al terzo posto fra tutte le province italiane con 53 espatri ogni mille abitanti[70]. In particolare le comunità montane della Lunigiana, della Garfagnana e dell’Appennino toscano hanno alimentato con un alto numero di lavoratori il processo migratorio mentre le aree collinari e le piane della Toscana centro-meridionale hanno generato minori contingenti di emigranti. Numerosi sono stati i toscani che hanno deciso di lavorare come braccianti, taglialegna ed operai in Brasile o negli Stati Uniti. Tra il 1876 e la fine del secolo, il Brasile ha assorbito una media del 15 per cento di tutti gli emigranti della provincia di Lucca; nel 1896 si è arrivati al 68,6 per cento il che ha spinto le autorità del paese sudamericano ad aprire un vice-consolato a Lucca. Quanto agli Stati Uniti, va sottolineato che nel 1881 oltre 100 carri di trasporto merci risultavano registrati a nome di lucchesi nella sola area urbana di San Francisco. La maggior parte degli emigranti toscani in California era impiegata nel settore agricolo e poi anche boschivo; quest’ultimo risultava in forte crescita dopo l’arrivo nel 1880 di un grosso contingente di carbonai dell’alta Lucchesia che andarono ad ingrossare le fila dei taglialegna toscani già presenti nelle foreste della California settentrionale[71].

Ai flussi della montagna si accodarono gli esuli politici e socialisti tra fine Ottocento e inizi Novecento e quelli antifascisti durante il ventennio.

Ciò premesso, passo ai flussi in uscita dalla Toscana diretti verso la Francia. L’emigrazione toscana ha riguardato in particolare la Corsica e il Sud-Est del paese transalpino. In entrambi i casi si è trattato di movimenti sostenuti da efficienti reti migratorie. I toscani rappresentano circa il 70 per cento degli italiani emigrati in Corsica. La componente “pistoiese” prevale su quella “lucchese” forte del contributo di comunità provenienti dai comuni di Marliana, Montale, Sambuca e San Marcello[72].

Consistente è stata, nei primi decenni di Novecento, la presenza toscana a Marsiglia allora definita “la più grande città italiana in Francia”. Quello che colpisce è la concentrazione di migranti toscani nei quartieri del “Nord-littoral”: quelli ad esempio provenienti dal comune di Fucecchio li ritroviamo a rue Clary, nel quartiere Juliette, e quelli di Poggio a Caiano a “boulevard de Strasbourg”[73].

Da ultimo ricordo che la Costa Azzurra è stata area di approdo per le balie della Valdinievole compresa per la massima parte nella provincia di Pistoia. Sempre in Costa Azzurra, nel comune di Cap-d’Ail, tra i domestici e camerieri italiani impiegati nell’area, il contingente più numeroso era rappresentato dai toscani provenienti dalla Val di Chiana.

Il comune di Anghiari è gemellato dal 1998 con La Plata, capoluogo della provincia di Buenos Aires, per ricordare l’emigrazione, soprattutto nel secondo dopoguerra, di suoi abitanti e di aretini dei dintorni nella città argentina[74].

“Se è innegabile che il marmo, con il suo ciclo che va dall’estrazione alla lavorazione scultorea, abbia influenzato in modo importante le vicende storiche del comprensorio apuano, altrettanto si può asserire per il ruolo che esso ha rivestito all’interno delle dinamiche migratorie che interessano le città di Massa e Carrara”[75].

Mi soffermo, tra i tanti, su due casi. A partire dal 1893 e fino alla metà del Novecento, il Vermont, negli Stati Uniti, fu raggiunto da uomini dotati di differenti capacità lavorative (cavatori, scalpellini, lustratori, ornatisti e scultori) di Carrara, ed in parte minore di Massa, che trovarono impiego presso la Vermont Marble Company. Dalla seconda metà dell’Ottocento sino al secondo dopoguerra emigrano in Uruguay numerosi cavatori e scalpellini carraresi che lavorano sia nei laboratori di Montevideo sia all’estrazione del marmo in una località, vicina a Pan de Azùcar, che battezzano col nome di Nueva Carrara.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’emigrazione verso le Americhe riveste un ruolo centrale per l’area lunigianese che ha nell’Argentina il proprio perno per il carattere prevalentemente agricolo della sua emigrazione. Sul fronte europeo è la Corsica, specialmente nella fase iniziale come più sopra ho ricordato, la destinazione principale degli esodi[76].

Un discorso a parte va fatto per i musicisti di strada italiani che provenivano in prevalenza dai piccoli villaggi degli Appennini tosco-emiliani, alcuni dei quali appartenevano al comprensorio della Lunigiana. Nel 1840 i nostri suonatori di strada avevano già costituito una Little Italy nel quartiere londinese di Clerkenwell. I musicisti ambulanti di Aulla nella Lunigiana sono invece stati attratti dagli Stati Uniti[77]. Questo comune va altresì ricordato per una piccola comunità di suoi emigranti che si è formata a Villerupt, nel dipartimento della Mosella che è un centro storicamente legato all’immigrazione italiana in Francia. Ogni anno a Villerupt gemellato con Aulla si organizza il Festival del Film Italiano.

Umbria

“Nonostante una radicata tendenza alla mobilità interna, la regione è rimasta al di fuori dei maggiori circuiti migratori ottocenteschi. Ancora alla fine del secolo i migranti si contavano in poche decine ogni anno; d’altronde la pressione demografica era esigua. La situazione cambiò con l’epoca giolittiana, quando la montagna iniziò a svuotarsi, in parte verso la pianura locale, in parte verso l’estero. I flussi non sono stati intensi, tuttavia alla vigilia della Grande guerra si sono registrati annualmente dai 9 ai 10.000 espatri. Questi si sono suddivisi fra le mete d’oltre Atlantico (inizialmente Brasile ed Argentina, poi soprattutto le miniere statunitensi sulla scia di romagnoli e marchigiani) e quelle continentali (con una forte preferenza per la Francia)”[78].

È a quest’ultimo paese (più precisamente al suo Sud-Est) che faccio riferimento per la mia analisi sul legame tra luogo di origine e luogo di destinazione. All’inizio si trattò di lavoratori agricoli utilizzati per le colture orticole, frutticole e floreali in particolare nell’area di Grasse. Provenivano dall’Alta Valle del Tevere, da Città di Castello, da Umbertide, dalla zona di Perugia (è il caso del comune di Citerna) e da piccoli centri intorno al lago Trasimeno. Con il decollo dell’industria turistica in Costa Azzurra (Mentone, Cannes, Antibes) giunsero altri emigranti umbri provenienti sempre dall’Alta Valle del Tevere e dal Perugino. Era comunque Nizza il polo attrattivo principale per gli emigranti umbri. Il loro insediamento ha riguardato soprattutto i quartieri cittadini di Riquier, di la Vieille Ville e Garibaldi e quelli periferici di Magnan, St. Barthelémy e la Madeleine. È proprio in questa città che si è costituito un nucleo socialista umbro con migranti provenienti in particolare da Città di Castello e Umbertide: i suoi circoli e le sue sezioni aderirono alla Federazione socialista italiana delle Alpi marittime[79].

Dopo la depressione economica di fine Ottocento, l’emigrazione umbra si è concentrata soprattutto nel primo quindicennio del Novecento nel quale si sono registrati 155.674 espatri pari al 58 per cento di quelli che hanno riguardato l’intera stagione migratoria del nostro paese. In questi anni migranti provenienti da Gubbio (Perugia) hanno formato una comunità nella cittadina di Jussup, a 13 Km. da Scranton, nella contea di Lackawanna in Pennsylvania (USA), in un’area con ricche miniere di carbone. Oggi la “Festa dei Ceri” è celebrata dagli eugubini anche a Jussup cittadina che è gemellata con Gubbio. Una seconda comunità si è costituita a Villerupt nel dipartimento della Mosella in Francia[80]. Analoga sorte è stata quella di Gualdo Tadino (Perugia) comune che è gemellato con Audun-le-Tiche, sempre nel dipartimento della Mosella, cittadina vicina a Villerupt, e con West Pittston in Pennsylvania, in ricordo dei gualdesi insidiatisi nelle due località. Va altresì segnalato il caso di Norcia (Perugia) perché nello stesso periodo si formarono tra Pennsylvania e Ohio numerose colonie di nursini. Si è non a caso sottolineato che negli anni della “grande emigrazione” gli espatri dall’Umbria si siano suddivisi tra “le mete d’oltre Atlantico (soprattutto le miniere statunitensi sulla scia di romagnoli e marchigiani) e quelle continentali (con una forte preferenza per la Francia)”[81]. Quanto a quest’ultimo paese, torno a ripetere che, all’inizio del Novecento, è stata soprattutto Nizza il polo attrattivo principale per gli emigranti umbri che trovarono lavoro soprattutto nelle campagne attorno alla città (raccolta delle olive e lavori connessi alle colture floreali destinate alla produzione di profumi)[82].

Sulla base di un’indagine sulle attuali famiglie di origine umbra residenti nell’Area Metropolitana di Buenos Aires nel 2005, si è accertato che il comune di Città di Castello (Perugia) è quello che ha contribuito con il maggior numero di migranti. La presenza di parenti o compaesani insediatisi in precedenza che avevano stabilito e/o consolidato catene migratorie, ha prodotto effetti particolarmente nella zona Ovest della Grande Buenos Aires[83].

“Fu solo con il secondo dopoguerra che, per la prima volta, la provincia di Terni fu davvero interessata dall’emigrazione internazionale. A differenza del resto del territorio umbro, il quale era stato scosso profondamente da questo fenomeno già in passato[84], queste zone non avevano mai conosciuto fino ad allora un’emigrazione di massa verso l’estero, grazie sostanzialmente alla crescita dell’industria che, ora, era invece entrata in una crisi profonda”[85]. La società Terni, che si accingeva ad operare numerosi licenziamenti, si impegnò, di concerto con l’Ufficio provinciale del lavoro, nel tentativo di promuovere fortemente a mezzo stampa la possibilità per i suoi operai di emigrare. Quella canadese rappresentò senza dubbio l’emigrazione più rilevante fra gli spostamenti internazionali che ebbero origine dalla provincia. La sua rilevanza fu dovuta innanzitutto alla particolare durezza delle condizioni lavorative e metereologiche che in special modo affrontavano minatori e operai dell’industria pesante. L’emigrazione ternana ha mantenuto forti legami con la terra di origine: negli anni Ottanta è stata fondata a Toronto l’”Associazione degli Umbri in Ontario” che conta ad oggi diverse centinaia di iscritti.

Sia in America che in Europa, negli anni della “grande emigrazione”, la maggioranza degli emigranti di Fossato di Vico, in provincia di Perugia, ha trovato occupazione nelle città minerarie, seguendo le caratteristiche migratorie specifiche di tutto l’Appennino eugubino-gualdese del quale mi sono già occupato. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, l’area preferita è stata la Pennsylvania. La destinazione finale di gran parte degli emigranti del comune perugino è stata l’area settentrionale della regione dell’antracite, la contea di Lockawanna e, più precisamente, Scranton, il capoluogo della contea, oppure altre cittadine minerarie vicine, spesso Old Forge o Jussup, più raramente Peckville o Dunmore. Per quanto riguarda l’Europa, la maggior parte degli emigranti si è insediata nel bacino minerario della parte settentrionale del continente, soprattutto in Lorena, dal lato francese o tedesco, oppure in Lussemburgo. In Lorena si sono ripartiti tra la Meurthe e Mosella e la Mosella tedesca. Dal lato francese sono da segnalare Villerupt e Audun-le-Tiche. Queste due cittadine, come quella di Jussup negli Stati Uniti, hanno avuto un ruolo, come ho già osservato, anche per i migranti provenienti da Gubbio e Gualdo Tadino[86].

Marche

“I flussi migratori in partenza dalle Marche, pur essendo simili a quelli delle altre regioni italiane, si sono distinti per alcune caratteristiche: ritardo, intensità, netta predilezione verso l’Argentina”[87]. Questo sintetico giudizio può essere sicuramente condiviso. Solo nei primi anni del Novecento l’emigrazione dalla regione verso l’estero ha in gran parte soppiantato l’esodo stagionale verso le regioni confinanti: tra il 1895 e il 1905 le Marche furono la regione dell’Italia centrale con il tasso migratorio più elevato. La preferenza per l’Argentina è certificata dal fatto che nel periodo 1876-1925 la regione registra la più alta percentuale nazionale sul numero totale degli espatri (38,1 per cento).

Lo confermano alcune vicende migratorie sulle quali mi soffermo. A Mar del Plata, città dell’Argentina centro-orientale, nella provincia di Buenos Aires, situata sulla costa dell’Oceano Atlantico, si è formata nel tempo un’importante comunità di migranti provenienti dal comune di Sant’Angelo in Vado, in provincia di Pesaro e Urbino. A partire dal 1886 i santangiolesi vi giungono grazie ad una catena migratoria che prolunga i suoi effetti sino fino al 1960. “Este grupo funcionó como un conjunto de seres ligados entre si, que formaron una configuración social, en la qual pueden descubrirse vinculacion y relaciones entre los primeros y los últimos en legar”[88]. La seconda chiama in causa il comune di Sirolo inserito nel bel Parco regionale del Conero. Si stima che fra il 1861 e il 1911 circa 1.600 persone abbiano lasciato il comune per trasferirsi a Buenos Aires in un’area ristretta del quartiere della Boca[89].

Interessante è stato il flusso migratorio alimentato dal comune di Ripatransone, in provincia di Ascoli Piceno, da dove sono partite donne dirette al Cairo e Alessandria d’Egitto per praticare il baliatico o per lavorare al servizio di famiglie benestanti. Le catene migratorie erano inanellate anche da legami parentali. “Talvolta la successione delle partenze familiari è aperta dalle madri che richiamano le figlie non appena queste hanno raggiunto l’opportuna età e allorché si presenta un’occasione favorevole di collocamento. Più spesso a partire per prima è la sorella maggiore di famiglie per lo più sovradimensionate rispetto al tetto medio, ed ottimale nel contesto piceno, di 6-7 persone nelle quali dunque è urgente l’obbligo di uscire dal nucleo originario alla ricerca dell’autonomia individuale e per contribuire al suo mantenimento”[90]. Da ultimo c’è infine il caso di Osimo: dei 5.023 espatri che si sono registrati tra il 1882 e il 1908, ben 4.213 hanno riguardato l’Argentina[91]. Il comune dell’Anconetano è oggi legato da un rapporto di gemellaggio con la cittadina di Armstrong situata nella provincia di Santa Fe a poco più di cento chilometri da Rosario[92].

Lazio

Il censimento effettuato dopo l’arrivo dei “piemontesi” registra a Roma una popolazione di circa 212 mila abitanti. Dal 1871 al 1901 la popolazione raddoppia: arrivano funzionari e impiegati per i nuovi ministeri, commercianti e professionisti. Tra il 1901 e il 1931 c’è un secondo raddoppio. L’attività urbanistica a Roma durante il Ventennio fu animata da un particolare fervore. Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, la popolazione della Capitale continua a crescere arrivando a sfiorare con il censimento del 1971 i 2,8 milioni di abitanti. Mi interessa evidenziare che l’espansione della città ha offerto sbocchi lavorativi dei quali hanno approfittato migranti interni provenienti in gran numero dai Comuni del Lazio riducendo la necessità di partire per l’estero alla ricerca di un futuro migliore. Oltre il 50 per cento degli espatri – come evidenzia la Tav. 1 – si concentra infatti nella terza fase. Ad alimentare le partenze sono soprattutto i comuni della provincia di Frosinone. Essendosi venuti a trovare al centro dello scontro militare tra Alleati e truppe naziste, 26 dei suoi comuni subirono la distruzione del centro abitato più importante in misura pari o superiore all’80 per cento[93].

Ciò premesso, ricordo le modelle e i modelli ciociari di Gallinaro molto apprezzati a Montmartre[94], i minorenni reclutati nella Valle del Liri e nella limitrofa Val di Comino per essere impiegati nell’industria del vetro a St. Denis, quartiere operaio della banlieue parigina[95], la colonia di lavoratori ciociari che si formò, per una particolare catena migratoria, a Villeurbanne allora sobborgo operaio di Lione[96], il successo negli anni Cinquanta di altri emigranti ciociari provenienti da Sora, Cassino e Casalattico che si affermarono in Irlanda nel settore della ristorazione veloce con l’apertura dei primi take away di fish & chips[97].

Ricordo ancora che tra il 1901 e il 1913 numerosi abitanti di Anagni, in provincia di Frosinone, partirono per gli Stati Uniti: la metà più gettonata fu Rochester nello Stato di New York. Altre catene migratorie si diressero all’inizio del Novecento sempre negli Stati Uniti: da Spigno Saturnia per Pittburgh, in Pennsylvania, da Monte San Biagio, Fondi e Lenola per Flushing, nella zona di New York e Lancaster, in Pennsylvania, da Gaeta per Sommerville in Massachussets. Fra i laziali che alla fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta si recarono in territorio francese, il 64 per cento proveniva dalla provincia di Frosinone. Oltre a quella di Villeurbanne più sopra segnalata, vanno ricordate le comunità che si formarono nel quadrante meridionale della banlieue parigina (Vitry, Villejuif, Choisy le Roy, Thiais) alimentate da migranti partiti dalla Valle del Liri (Isola del Liri, Sora, Arpino, Castelliri, Rocca d’Arce, ecc.), dalla Val di Comino (spicca il comune di Casalvieri) e dalla zona del Monte Cairo (come Roccasecca). Nel Reatino, area prevalentemente montana, la percentuale più alta di emigranti venne rilevata nel 1901 con un’ondata di partenze “sovvenzionate” per il Brasile. “La causa scatenante dell’esodo verso il Sudamerica fu rappresentata dalla rottura degli equilibri socio-economici locali. Al peggioramento delle condizioni di vita contribuirono i continui disboscamenti, gli eccessivi carichi fiscali cui era sottoposta la popolazione contadina dell’Alta Sabina e la riduzione degli usi civici, in particolare delle servitù di pascolo”[98].

Per quanto il movimento migratorio dei tempi attuali non sia paragonabile a quello di un passato non recente – anche per le modalità con le quali oggi ci si trasferisce in un altro paese – e tenuto comunque conto che tra il 2008 e il 2018 il saldo migratorio è passato da 7 mila a quasi 70 mila unità, mi pare interessante segnalare che delle 8 mila persone che dall’Italia si sono trasferite negli Emirati Arabi Uniti, circa un quinto è partito da Roma[99].

Ad alimentare le partenze dalla regione sono stati soprattutto i comuni della provincia di Frosinone e, con un peso minore, quelli della provincia di Latina. È perciò su talune realtà comunali di queste due province che mi soffermo ulteriormente. Condivido il giudizio di chi ha sostenuto che “l’emigrazione ha giocato un ruolo fondamentale nella storia economica della regione. Nel corso dei secoli si sono formate tra il Lazio e i paesi di emigrazione numerose catene migratorie, che hanno creato una fitta rete di rapporti economici tra i paesi, le valli e intere province del Lazio e le zone in cui gli emigranti si sono via via stabiliti”[100].

All’inizio del Novecento migranti di Patrica si sono insediati ad Aliquippa, contea di Beaver in Pennsylvania. Il 16 agosto di ogni anno i loro discendenti celebrano la festa di San Rocco, santo protettore di Patrica, per sentirsi più vicini alle loro origini. Negli stessi anni migranti partiti da Veroli, sempre in provincia di Frosinone, hanno creato una piccola comunità a Elisabeth, nel New Jersey[101].

Il comune di Picinisco, che il 19 agosto celebra la festa dell’emigrante, ha alimentato nella seconda metà degli anni Settanta dello scorso secolo un importante flusso migratorio verso l’estero. Tra il censimento del 1961 e quello del 1981 la sua popolazione è scesa da 2.157 a 1.288 abitanti. A partire dal 1973 una rilevante presenza dei suoi migranti (più di 200) è stata registrata nella Little Italy che si è formata a Grassmarket nel centro storico della città di Edimburgo in Scozia. “Il processo di migrazione in Gran Bretagna non sembra molto dissimile dai modelli individuali individuati nelle migrazioni transoceaniche degli inizi del secolo. Analogie emergono per ciò che concerne lo spostamento a catena del singolo e quasi dell’intero paese, la solidarietà di gruppo nonché la riproduzione di atteggiamenti e di comportamenti quali il particolarismo dei valori culturali”[102].

Da ultimo segnalo per la provincia di Latina i due comuni di Sonnino e Sezze dai quali due piccoli gruppi di migranti sono partiti per una meta assai lontana, l’Australia. Si sono imbarcati a Napoli nel 1952 con un contratto che garantiva loro un lavoro nelle ferrovie come manovale o engine-cleaner. I migranti di Sonnino si sono stabiliti a Melbourne, quelli di Sezze sono invece sbarcati sulla costa occidentale a Freemantle. Questi ultimi, assunti nelle ferrovie (vivevano in tende lungo la strada ferrata), scelsero inizialmente la città di Northam come luogo per i loro incontri. Trasferitisi poi a Perth dove trovarono nuove opportunità di lavoro, si servirono degli Italian Clubs per mantenere i contatti fra loro secondo la tradizione italiana[103].

Ad integrazione di quanto ho già avuto occasione di precisare, mi soffermo sul flusso migratorio verso l’estero alimentato dai comuni della provincia di Latina per fornire un quadro più completo dell’esodo cha ha riguardato l’Agro Pontino. Naturalmente faccio riferimento alla prima fase dell’emigrazione italiana (soprattutto al periodo della “grande emigrazione”) ed agli anni del secondo dopoguerra. Ricordo al riguardo che tra il 1902 e il 1907 in quattro comuni (Campodimele, Minturno, Santi Cosma e Damiano, Sperlonga) la percentuale degli emigrati sulla popolazione ha superato la soglia del 30 per cento[104] e che nel secondo conflitto mondiale cinque comuni (Formia, Castelforte, Gaeta, Itri e Spigno Saturnia) situati lungo la Linea Gustav hanno subito la distruzione del centro abitato in una misura pari o superiore all’80 per cento[105].

Sono state individuate grandi catene migratorie. Do notizia di quelle che ritengo più significative e che, ovviamente, non ho in precedenza segnalato[106]:

  • Migranti provenienti da Spigno Saturnia hanno creato una piccola comunità a Villa Adelina cittadina a 20 km. da Buenos Aires in Argentina;
  • Comunità di minturnesi si sono insediate a Stamford e Bridgeport nella contea di Fairfield nel Connecticut (USA);
  • Migranti di Gaeta si sono stabiliti nella cittadina di Frontignan (dipartimento dell’Hérault nella regione dell’Occitania in Francia) che oggi è gemellata con Gaeta;
  • Migranti provenienti da Pisterzo (nel comune di Prossedi) hanno creato una “Little Italy” a Toronto in Canada;
  • Un’antica piccola comunità di migranti ponzesi continua ad esistere a Santo Domingo nei Caraibi;
  • Il comune di Itri è gemellato con la città di Cranston negli Stati Uniti (contea di Providence nello stato di Rhode Island) nella quale risiede una corposa compagine di suoi emigranti e dei loro discendenti.
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Abruzzo

Questa regione ha maturato nel tempo una forte vocazione alla mobilità. Agli spostamenti verso le regioni del Centro-Nord, hanno fatto seguito, fino ai primi anni del Novecento, migrazioni verso i paesi balcanici. In particolare migranti aquilani e teramani hanno trovato opportunità di lavoro in Grecia, circondario di Patrasso, come sterratori nella costruzione di ferrovie e nel taglio dell’istmo di Corinto[107]. È toccato poi alla Germania. Si trattava prevalentemente di migrazioni temporanee, in certi casi addirittura stagionali, che in breve tempo hanno innestato però la tendenza a varcare l’Atlantico. Anche la diaspora americana è stata temporanea, eventualmente ripetuta più volte, ma senza spezzare il filo con i luoghi di origine. Se la permanenza all’estero si allungava, la comunità abruzzese tendeva a concentrarsi formando insediamenti basati sul luogo di partenza. Tale meccanismo si è perpetuato non soltanto nella grande emigrazione fra Otto e Novecento, ma pure tra le due guerre e dopo il secondo conflitto mondiale, quando Canada, Venezuela e Australia hanno affiancato Stati Uniti e Argentina come nuove mete migratorie[108]. I riscontri non mancano. “Nel seno della città di Philadelphia c’è una città italiana e in seno a questa c’è un quartiere nettamente abruzzese. Una strada separa quelli di Chieti da quelli di Teramo e Aquila, un vicolo quelli di Chieti da quelli di Lanciano e di Vasto”[109]. Rispetto alla comunità abruzzese di Philadelphia, va precisato che solo tra il 1901 e il 1919 la ditta dell’abruzzese Frank Di Berardino è riuscita a far arrivare nella suddetta città, ben 10.321 emigranti. Questa ditta, pubblicizzata come semplice agenzia di viaggi, operava piuttosto come agenzia di reclutamento e banca per emigranti. L’azione degli agenti dell’emigrazione ha in altri termini costituito un detonatore particolarmente efficace del fenomeno emigratorio. Altra comunità, naturalmente molto più piccola, è stata quella che gli emigranti del comune di Raiano nell’Aquilano hanno formato a Chicago[110].

 L’acquisto o la costruzione di un’abitazione era per l’emigrante abruzzese il simbolo più evidente dell’accresciuto benessere: ad Avezzano, nel Sulmontino e nel Teramano si trovavano, tra il 1880 e il 1914, interi quartieri di belle e linde casette costruite coi risparmi dell’America che si differenziavano esteriormente dalle altre abitazioni del paese. In molti casi le rimesse avevano lo scopo di sovvenzionare e facilitare la partenza di altri emigranti abruzzesi, e costituivano un richiamo per specifiche destinazioni. Erano quindi il presupposto per la formazione di vere e proprie “catene migratorie”: dal Teramano verso il Brasile, dal Sulmontino verso il Sudamerica in generale, dal Chietino verso gli Stati Uniti, dall’Altipiano delle Rocche, nell’Aquilano, verso il Sud Africa e così via[111].

Da Palena, comune montano della Maiella orientale in provincia di Chieti, sono partiti nel 1910 (la popolazione del bel borgo era allora al suo massimo, più di 4 mila abitanti, mentre a fine 2019 ne conta solo circa 1.300) numerosi migranti che si stabilirono nella città mineraria di Canonsburg in Pennsylvania creandovi una piccola comunità. Del gruppo facevano parte i genitori del grande crooner americano Perry Como.

Nei primi anni del secondo dopoguerra i comuni di Pizzoferrato e di Gamberale, anche questi in provincia di Chieti, hanno alimentato una forte emigrazione verso gli Stati Uniti. Tra il censimento del 1951 e quello del 1971 la popolazione residente nei due comuni passa, rispettivamente, da 1.932 a 1.540 e da 1.076 a 668 abitanti. Ai migranti partiti dai due comuni, si deve la fondazione, a Pittsburgh, del quartiere di Panther Hollow[112].

Hamilton, città canadese dell’Ontario meridionale (si affaccia sul lago Ontario), è conosciuta come Steel City (città dell’acciaio) per l’importanza dell’industria siderurgica locale. Si calcola che un quarto dei suoi attuali 500 mila abitanti sia di origine straniera. Primeggia la comunità di origine italiana che oggi conta quasi 70 mila abitanti. Significativo è stato, soprattutto nel secondo dopoguerra quando il Canada diventa una delle nuove mete transoceaniche, il contributo di sei comuni della provincia dell’Aquila (Gagliano Aterno, Pacentro, Pettorano sul Gizio, Pratola Peligna, Sulmona[113] e Villetta Barrea) e di Castiglione a Casauria (provincia di Pescara) che sono dal 1992 gemellati con la città canadese.

Molise

Da questa piccola regione, nella quale con la rilevazione censuaria del 2011 è stata censita una popolazione residente di 313.660 abitanti, si sono registrati tra il 1876 e il 1976 ben 618.999 espatri, circa il 30 per cento dei quali nei primi quindici anni del secolo XX, nel periodo della cosiddetta “grande emigrazione”. Non a caso viene spesso rimarcato come il Molise sia l’unica regione che, a seguito delle sue vicende migratorie, può annoverare fuori dai propri confini una presenza di persone d’origine di molto superiore al doppio della sua attuale popolazione residente[114]. Argentina, Brasile e a seguire gli Stati Uniti e poi il Canada, sono stati inizialmente i principali poli d’attrazione dei migranti molisani. Nel secondo dopoguerra c’è stata dapprima una lieve ripresa dei flussi diretti in Argentina, negli Stati Uniti e in Brasile, ma a partire dagli anni Cinquanta si è consolidata una nuova direttrice migratoria, quella verso i paesi europei, Belgio e Francia in primo luogo e, in misura minore, Gran Bretagna e Svizzera.

Con riferimento al legame tra luogo di partenza e luogo di arrivo, riservo attenzione a due casi che chiamano in causa da un lato il Comune di Agnone e dall’altro un gruppo di sette comuni di piccole dimensioni sotto il profilo demografico.

Al tempo della “grande emigrazione”, Agnone, importante centro artigianale (orafi e ramai) dell’Alto Molise, era il secondo più popoloso comune dopo il capoluogo dell’allora unica provincia di Campobasso; ha fornito il maggior numero di emigranti (alcuni suoi operai, attirati da notizie su probabili giacimenti auriferi in Sudamerica costituirono già nel 1870 il primo sparuto nucleo di emigranti molisani che varcarono l’oceano)[115]. “Con il meccanismo dell’emigrazione in catena i suoi emigranti seppero dar vita a popolose e strutturate comunità in America latina”[116]. Una delle più importanti si è formata a Buenos Aires in un’area ristretta dalle parti di Plaza del Carmen. Circolarono pure dei giornali tra i quali Eco del Sannio pubblicato dal 1894 al 1918[117].

Il 6 dicembre 1907 a Monongah, in West Virginia, ci fu il più grave disastro minerario nella storia degli Stati Uniti. Si contarono 358 persone decedute (si tratta della cifra “ufficiale” dal momento che si è arrivati ad ipotizzare che il numero delle vittime possa aver superato le 500 unità). Ben 171 furono gli italiani, 87 dei quali molisani provenienti dai seguenti comuni: Duronia (36), Frosolone, (20), Torella del Sannio (12), Fossalto (8), Pietracatella (7), Bagnoli del Trigno (3), Vastogirardi (1). “Il fatto che la percentuale più elevata provenga da quattro comuni contermini, come Duronia, Frosolone, Torella e Fossalto, conferma il peso della catena delle chiamate nella formazione dei flussi verso l’America e nella riaggregazione delle comunità nei luoghi di insediamento”[118].

“Si stima che in Canada vivano circa 200 mila persone di origine molisana. I nuclei più consistenti risiedono nei centri di Toronto e Montreal, rispettivamente nelle province canadesi dell’Ontario e del Québec. A Toronto predominano i molisani dell’Alto Molise, mentre a Montreal vi è una certa preponderanza di molisani provenienti dal Basso Molise”[119].

Con riferimento ai molisani di Montreal merita di essere segnalato il caso del comune di Santa Maria del Molise, che dal 1970 fa parte della provincia di Isernia. Questo comune montano ha vissuto una drastica emorragia demografica soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Lo certificano i risultati censuari con la popolazione residente che passa dai 1.833 abitanti del 1951 ai 632 del 1981. Oggi vivono nella grande area di Montreal circa 2 mila sanmarianesi di nascita o di origine che hanno creato una piccola comunità (ha dato vita all’Associazione di Fraternità di Santa Maria del Molise)[120].

Tra le mete transoceaniche un posto di rilievo ha avuto – come ho già avuto occasione di precisare – l’Argentina. Un significativo insediamento di migranti, provenienti dal comune di Ripalimosani con il collaudato meccanismo a catena, si è avuto nella Pampa gringa, precisamente a Rosario, tra fine Ottocento e inizio Novecento. “La singolarità è che i nuovi arrivati, per iniziativa di uno dei pionieri, Luca Vitantonio, si sono concentrati nel settore della panificazione, nel quale hanno raggiunto un ruolo di rilievo che si è rinnovato con gli apporti della seconda ondata migratoria”[121]. Un altro punto di polarizzazione dei molisani in Argentina si è avuto agli inizi del ventesimo secolo sulla costa atlantica, a Mar del Plata, ad opera di migranti provenienti dai comuni di Trivento, Duronia e, soprattutto, Mafalda.

Mi preme ribadire che questa piccola regione ha alimentato un importante flusso migratorio verso l’estero. Non a caso nell’arco dei 150 anni tra il censimento del 1861 e quello del 2011 la sua popolazione residente è passata da 355.138 a 313.660 abitanti ed il suo peso demografico è sceso dall’ 1,3 allo 0,5 per cento[122] .

Migranti provenienti dal comune di Agnone non li troviamo solo in Argentina ma anche negli Stati Uniti. Nella valle del Mahoning in Ohio durante la guerra del carbone del 1873, per rimpiazzare i minatori gallesi in sciopero, arrivarono migranti italiani (circa trecento) e afroamericani dalla Virginia. Gli italiani si sistemarono inizialmente a Coalburg nell’accampamento fornito dai proprietari delle miniere dove crearono una “Little Italy”. Lavorarono poi nella costruzione di una ferrovia e si distribuirono in seguito in diversi centri abitati della valle. Nel 1930 si registrò l’arrivo di altri emigranti italiani.

All’interno di questo gruppo si formò a Youngstown, che con le sue industrie di ferro e acciaio offriva buone prospettive di lavoro, una comunità di migranti provenienti da Agnone, da Capracotta e da altri comuni dell’Alto Sannio. Figura di spicco di questa comunità fu Marco Antonelli, nato ad Agnone nel 1897, che arrivò negli Stati Uniti a 16 anni. Fu il primo italiano a ottenere la cittadinanza statunitense nella contea di Mahoning. Dopo varie esperienze lavorative, aprì un negozio di alimentari, una panetteria e una “banca di cambio” (all’epoca anche piccoli negozi erano impegnati nell’offerta di servizi finanziari). Vendette inoltre biglietti transatlantici come agente di diverse compagnie. Nel 1881 tornò in Italia per sposare Giovanna Di Camillo che morì nel 1897. La coppia ebbe dieci figli. Nel viaggio di ritorno dal nostro paese fu accompagnato da 400 migranti. Morì nel 1930[123]. Nel 1935 il “Club degli Agnonesi” contava circa 300 affiliati[124].

Il trend demografico del comune di Pizzone, in provincia di Isernia, non è diverso da quello di tanti altri comuni della regione: dai 1.859 residenti del censimento del 1871 si è scesi ai 335 del censimento del 2011. Un particolare flusso migratorio ha portato molti pizzonesi (oltre mille) a stabilirsi a Chicago negli Stati Uniti dove oggi esiste l’immancabile Club dedicato a Santa Liberata crocifissa a Pizzone, presso l’omonima chiesetta. Tutto inizia nel 1920 con Pietro Fusco che con altri compaesani si specializza nella costruzione di reti fognanti. Negli anni Cinquanta una seconda ondata di piccoli costruttori edili, provenienti sempre da Pizzone, conferma il controllo del settore da parte della comunità[125].

Si è scritto che “a Princeton, nel New Jersey, vi è un intero paese molisano: Pettoranello”[126]. È un ulteriore caso nella regione di un comune la cui popolazione passa dai 1.135 abitanti censiti nel 1861 ai 353 del 1981 (risale a 459 residenti con il censimento del 2011).

Campania

Il contributo della Campania all’emigrazione italiana negli anni considerati è superato solo da quello del Veneto. Come documentano i dati esposti nella Tav. 1, il primato della Campania nella terza fase, con 936.561 espatri, è in ogni caso netto. Il declino della diaspora transatlantica è stato più lento rispetto alle altre regioni. È solo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento che prevale il peso delle mete europee (quello della Germania in particolare). Con l’andare del tempo si sono strutturate comunità campane all’estero separate dalla regione di partenza ma ben visibili per il loro associazionismo e per il loro contributo alla cultura dell’emigrazione[127].

Tra i pochi casi che ho selezionato c’è quello di Torre del Greco importante centro della regione soprattutto dal punto di vista demografico, legato storicamente alla pesca del corallo e a quella ittica. L’Algeria era una metà storica della comunità dei pescatori corallini di Torre del Greco, specie nelle località di Bona e La Calle, oltre che di Algeri. Alcune famiglie vi risiedevano stabilmente fin dalla metà dell’Ottocento. Anche la pesca delle spugne, sviluppatasi pienamente all’inizio del Novecento, portò una trentina di gruppi familiari e molti soggetti individuali, sempre torresi, a trasferirsi a Sfax, in Tunisia. Una parte di loro si trasferì nel 1928 a Zuana Marina, in Libia, dove rimase fino all’avvento di Gheddafi[128].

Mi trasferisco in provincia di Salerno per segnalare il caso di Marina, frazione del comune di Camerota. Si calcola che in oltre un secolo migliaia dei suoi abitanti siano emigrati in Venezuela. Dei quasi 3 mila iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) del comune di Camerota nel 2011, il 38 per cento risultava vivere in Venezuela. Nella comunità di Marina di Camerota a Caracas è rimasta sempre viva la devozione verso il patrono San Domenico al punto di organizzare una festa che ricalca quella della località d’origine. D’altro canto nella stessa Marina è stato esportato il culto, fervidamente sentito, della Madonna di Coromoto, patrona del Venezuela. Alla strada più importante del borgo è stato inoltre dato il nome di Simon Bolivar[129].

Verso la periferia di Waterbury – città del Connecticut che ho già avuto occasione di segnalare trattando dell’emigrazione ligure – aveva sede una delle organizzazioni etniche di mutuo soccorso di più notevole prestigio, il “Ponte Club”. “Dove Ponte sta per Pontelandolfo, un piccolo centro in provincia di Benevento. Di qui negli anni a cavallo del secolo è partita un’intensa catena migratoria che, se ha conosciuto le sue punte quantitative nei due primi decenni del Novecento, è comunque in notevole misura sopravvissuta alla soluzione di continuità nel flusso di arrivi rappresentato dal periodo tra le due guerre. E ha continuato ad alimentare anche in tempi recenti, al punto che i pontelandolfesi di Waterbury sono addirittura 12 mila, tre volte quelli rimasti a casa”[130].

I comuni dell’Alto Sele, in provincia di Salerno, hanno offerto un buon contributo al flusso migratorio verso l’estero alimentato dalla regione Campania. Segnalo in particolare il caso del piccolo comune di Valva. Un suo migrante insediatosi negli Stati Uniti ha osservato “Tra il 1890 e il 1930 c’erano più valvesi a New York che a Valva”[131]. Nel secondo dopoguerra piccoli gruppi di migranti sono invece partiti per la Germania. “Aprono la breccia di quella che sarà una solida catena migratoria tra Valva e Darmstadt (cittadina ubicata vicino a Stoccarda)”[132].

Puglia

Al pari del Lazio, la Puglia registra il maggior numero di partenze nel secondo dopoguerra: nella terza fase, come mostrano i dati riportati nella Tav. 1, si concentra infatti il 61,4 per cento del totale degli espatri nell’arco del secolo preso in esame.

Tra il 1876 e il 1900 la Puglia ha avuto nel Mezzogiorno il flusso in uscita meno elevato. Le principali aree di partenza sono state le campagne del Nord-Ovest della Capitanata e l’area costiera e agricola della Terra di Bari.

Con l’inizio del XX secolo la regione ha invece progressivamente assunto un ruolo primario. Ha prevalso la migrazione transoceanica (in primis quella che ha riguardato gli Stati Uniti) anche se a ridosso del primo conflitto mondiale hanno preso corpo anche le mete europee (Austria e Francia, oltre alla più vicina Grecia). L’emigrazione verso gli Stati Uniti è stata alimentata prevalentemente dai comuni appartenenti alla Capitanata ed alla Terra di Bari mentre nei flussi verso l’Argentina sono stati principalmente coinvolti i comuni della Terra d’Otranto; quelli verso l’Austria e Francia hanno riguardato i comuni della Terra di Bari e della Terra d’Otranto[133].

Sono diverse le vicende migratorie alle quali mi interessa riservare brevi cenni. Molfetta, importante centro della città metropolitana di Bari, ha avuto un’interessante storia migratoria. All’inizio del Novecento, migranti partiti dal comune pugliese hanno creato negli Stati Uniti due comunità: una a Brooklyn (New York) e l’altra, più importante, a Hoboken (New Jersey). Quest’ultima località, ove ogni anno si celebra la festa della “Madonna dei Martiri” venerata nell’omonimo santuario del porto italiano, è stata ribattezzata la “Molfetta d’ America”. Merita di essere segnalato che con le rimesse dei molfettesi stabilitisi nei due centri americani, è stato a suo tempo costruito un nuovo quartiere nel settore orientale della città pugliese[134].

Nella seconda metà dell’Ottocento si è formata a Patrasso, in Grecia, una colonia composta quasi esclusivamente da famiglie pugliesi. “Questi migranti fecero venire in seguito parenti e conoscenti, e a poco a poco si formò nella città un considerevole nucleo di italiani, i quali conservarono l’affetto per la madre patria, i propri costumi, il patrio dialetto, la religione dei loro padri, e finirono per formare un quartiere abitato esclusivamente da loro, quello di San Dionigi”[135]. “I suoi componenti – annota ancora il vice-console italiano nel 1905 – sono per la massima parte marinai e agricoltori; in misura minore operai. Un certo numero dei nostri connazionali possiede delle bilancelle da pesca e dei trabaccoli coi quali esercitano il piccolo cabotaggio. Vengono poi annualmente in queste acque – è questo il punto che mi interessa sottolineare – circa trenta bilancelle dei porti di Molfetta, Mola di Bari e Trani”.

Già alla vigilia del primo conflitto mondiale, si era formata a Grenoble, nel dipartimento d’Isère in Francia, una corposa comunità di migranti provenienti da Corato, in provincia di Bari[136]. Flussi successivi ne hanno rafforzato l’importanza[137]. Tra il censimento del 1921 e quello del 1936, la popolazione residente nel comune pugliese passa da 50.010 a 44.661 abitanti; ancora più pesante è stato il calo che si è registrato tra il 1951 e il 1961 quando la popolazione è scesa sotto la soglia dei 40 mila abitanti. Nel 2002 è stato sottoscritto un gemellaggio tra Corato e la città francese: a Corato c’è piazza Grenoble ed a Grenoble avenue de Corato.

“Tra il 1890 e il 1908 sono partiti da Mola, da Conversano e da Rutigliano più di 4 mila contadini, operai e artigiani. Nel 1909 e nel 1910, anche in conseguenza di una tremenda e prolungata siccità che si abbattè sulla Puglia, il ritmo dei partenti continuò ad aumentare per raggiungere la sua punta più alta nel 1913”[138]. Anche in seguito, soprattutto nel secondo dopoguerra, vi è stata in ogni caso una forte ripresa delle correnti migratorie verso l’estero. Si sono così formate diverse comunità in vari paesi esteri. Si contano oggi “circoli e associazioni degli emigranti molesi, conversanesi e rutiglianesi, i quali, nati sulla base di un forte impegno solidaristico e di mutuo soccorso promuovono anche non scarse attività ricreative-culturali, organizzano le loro feste patronali (la Festa di Maria SS. Addolorata, la Festa di Maria SS. della Fonte e la Festa del SS. Crocifisso) e mantengono nella gran parte dei casi stretti contatti e legami con i paesi d’origine”[139]. La comunità molese più importante è stata quella di Brooklyn, i conversanesi si sono insediati soprattutto a Long Island, le comunità rutiglianesi più consistenti sono state quelle di Chicago e Toronto.

Nel perimetro urbano di Herford in Germania (Renania Settentrionale-Vestfalen), migranti provenienti nel secondo dopoguerra dal comune di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, si sono insediati al centro della città, in strade di punta e di negozi, ma in condizioni spesso disagiate. All’interno dell’area chiusa da Elisabethstr., Höckerstr. e Arbeitstr., vi è stata un’ulteriore frammentazione di isolette cegliesi con caseggiati occupati dal primo all’ultimo piano da famiglie legate da parentela o da amicizia. Si trattava spesso di edifici in cattivo stato di conservazione, senza ascensore, con scale in legno consunto e abitazioni arredate con mobili di seconda mano sui quali comparivano foto e souvenir della famiglia d’origine[140].

Nei primi anni del Novecento un nutrito gruppo di migranti (alcune centinaia) partiti dal comune di Roseto Valfortore, in provincia di Foggia, che fa oggi parte del club “I borghi più belli d’Italia”, ha raggiunto gli Stati Uniti dove, per ricordare il paese d’origine, ha fondato il borough di Roseto nella contea di Northampton in Pennsylvania[141]. Inizialmente sono stati impiegati nelle locali cave di ardesia e va al riguardo ricordato che nel comune foggiano è stato storicamente notevole il settore dell’estrazione e della lavorazione della pietra arenaria. Nel secondo dopoguerra è ripreso il flusso migratorio, questa volta diretto soprattutto verso il Canada. La popolazione residente di Roseto Valfortore che al censimento del 1901 superava i 5 mila abitanti, attualmente è sotto quota mille.

Come ho già osservato, è nel secondo dopoguerra che si registra in Puglia il picco del flusso migratorio verso l’estero: 856 mila emigranti tra il 1946 e il 1976. “Questa ondata migratoria non si dirige più verso le Americhe; la destinazione prevalente diventa quella europea. Per i pugliesi la Svizzera diventa sinonimo di America e anche nel linguaggio popolare l’espressione andare in Svizzera diventa sinonimo di emigrare…Si può affermare che mentre il concetto di grande emigrazione si applica a tutta l’Italia nel periodo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, per la Puglia la stessa definizione la possiamo riservare solo al periodo del secondo dopoguerra quando assume le dimensioni di una fuga di massa”[142]. Almeno fino al 1960 nei piccoli paesi della regione “vi era il dominio incontrastato dei proprietari terrieri e nelle campagne vi erano situazioni sociali di sfruttamento economico e di sudditanza sociale molto elevata”[143].

Il libro che sto citando contiene le storie di vita di 26 migranti pugliesi provenienti per lo più dal Salento, dalle quali ho tratto spunto per due casi interessanti per la ricerca che sto portando avanti. Il primo riguarda il comune di Uggiano la Chiesa in provincia di Lecce nel quale mi preme in primo luogo ricordare che il 9 agosto si celebra la Giornata dell’Emigrante. La popolazione residente nella cittadina che tra il censimento del 1936 e quello del 1951 era cresciuta da 3.764 a 4.200 abitanti, è restata stabile nei censimenti successivi fino al 2011. Dalle testimonianze rese risulta che nella città tedesca di Francoforte sul Meno si erano insediati circa 100 uggianesi dal 1970 in poi e che nel comune di Näfels[144] in Svizzera nel Canton Glarona vivessero “almeno due o trecento uggianesi”.

Da un’altra testimonianza si apprende che nella grande fabbrica Eternit situata nel paese di Niederurnen, nel Cantone di Glarus in Svizzera, “lavoravano molti emigranti italiani in maggioranza originari dei comuni vicini al capo di Leuca, tanto è vero che anche gli svizzeri parlavano un poco il nostro dialetto”[145].

Vale la pena di ricordare che nel 2011 la provincia di Lecce con 45.054 migranti residenti in Svizzera guidava la graduatoria delle province italiane costruita sulla base del numero dei nostri connazionali accolti dal paese elvetico[146].

Nel secondo dopoguerra la novità per l’emigrazione dal nostro paese è stata rappresentata dal successo di nuove mete transoceaniche (Canada, Venezuela e Australia) che in precedenza erano risultate piuttosto secondarie[147]. Ne faccio cenno perché, senza intaccare la prevalenza delle mete europee, un qualche flusso verso i paesi appena citati, c’è stato anche in Puglia. Mi riferisco in particolare al comune di Monteleone di Puglia situato sui monti della Daunia. La massiccia sottrazione di uomini validi, inviati in diversi fronti di guerra, aveva reso più dura la realtà quotidiana delle famiglie rurali, ridotte alla miseria e alla fame. La situazione allarmante riguardava in particolare la Capitanata. A Monteleone di Puglia la collera popolare era esplosa nella prima mattinata del 23 agosto del 1942 in conseguenza della decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granturco ad alcune donne che erano in fila davanti ad un forno del paese. Ci furono manifestazioni, scontri con la forza pubblica e numerosi arresti. La conclusione del lungo iter processuale avvenne nel maggio del 1950. Il flusso migratorio verso l’estero che era ripreso subito dopo la fine della guerra si intensificò proprio dopo la conclusione del processo con un esodo massiccio verso il Canada. “A Toronto esiste ancora oggi una numerosa comunità di cittadini originari di Monteleone che si sono portati appresso i segni delle sofferenze della guerra, della repressione politico giudiziaria e di vita sempre più difficili nel secondo dopoguerra”[148]. La popolazione residente nel comune foggiano che al censimento del 1951 era di 4.979 abitanti, è successivamente diminuita fortemente riducendosi attualmente a meno di mille abitanti.

Basilicata

La struttura montagnosa ha reso la regione da sempre dipendente delle vicine aree agricole della Puglia, con la quale ha intessuto una lunga tradizione di scambi demografici; forte è stato pure l’effetto attrattivo di Napoli che si è fatto sentire per tutta l’età moderna. Per quanto riguarda l’emigrazione, all’inizio si trattò di un “rivolo” di poco più di un migliaio di persone. Negli anni successivi è diventato un fenomeno numericamente rilevante: se nel 1876 si sono contati ancora 1.125 espatri, dal 1878 le partenze raddoppiano costantemente fino ad arrivare, nel 1906, a oltre 18 mila espatri. Il Nuovo Mondo (soprattutto Stati Uniti, Argentina e Brasile) è sempre stata la destinazione più agognata.

“Se le terre lucane sono scarse di colture e di rendimento e, anzi, se tale scarsezza si accentra nel primo cinquantennio di storia unitaria, se nonostante il diminuire della densità della popolazione la proporzione tra questa e le risorse della terra, è perché non si è prodotta nella regione una rivoluzione agronomica, perché il persistere di contratti agrari scannatori e la stessa politica dei governi nazionali hanno impedito qualsiasi trasformazione culturale nelle campagne lucane. Sono queste condizioni e questi rapporti sociali che determinano l’abbandono da parte dei contadini non solo delle terre scarsamente produttive, ma anche dei terreni che avrebbero potuto dare rese eccellenti”[149].

Calzolai e sarti di Lagonegro si sono stabiliti in Messico, a Merida, nello Yucatan; commercianti al minuto del comune di Lauria si sono trasferiti a Panama e Portorico; emigranti provenienti da San Fele hanno lavorato nelle industrie del filo di ferro di Trenton, nel New Jersey; nei primi anni del Novecento un gruppo di elettricisti di Maratea ha trovato lavoro a New Orleans; da Avigliano e Rotondella sono partiti emigranti che si sono insediati in piccoli centri del Massachusetts e della Pennsylvania[150].

Un caso lucano di emigrazione di mestiere è stato quello dei ramai della Valle del Noce. I ramai del comune di Rivello, in provincia di Potenza, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento hanno cominciato a fissarsi stabilmente e in numero sempre maggiore nella provincia di Albacete, soprattutto ad Hellin dove, divenuti caldereros o caldereiros, si sono imposti specialmente nella produzione di uso domestico (pentole, lanterne, ecc.). Nella cittadina spagnola alla comunità degli artigiani del rame è stato intitolato uno spazio pubblico[151].

Situato nell’entroterra della costa tirrenica lucana, nel mezzo dell’appennino lucano, il comune di Trecchina, in provincia di Potenza, è gemellato dal 1963 con la città brasiliana di Jequié, nello Stato di Bahia, che oggi conta più di 150 mila abitanti. Tra il 1884 e il 1903 vi si sono stabiliti migranti provenienti da Trecchina e da altri comuni del circondario di Lagonegro.

Singolare la vicenda di Maratea, altro comune dello stesso circondario. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento un marateota, il Cav. Cesarino, ricco banchiere e agente consolare in Bolivia, ha dato lavoro a una numerosa colonia di concittadini che si sono insediati a La Paz. Solo fra il 1893 e il 1896 sono partiti da Maratea, che al censimento del 1881 contava 5.689 abitanti, ben 1.318 migranti[152].

Nei primi cinque anni del periodo della cosiddetta “grande emigrazione” (gli anni dal 1901 al 1915), assai importante è stato il flusso migratorio generato dal comune di Ripacandida, pure questo in provincia di Potenza. Il numero medio dei partenti per anno nel quinquennio è infatti stato di ben 268 persone. In quella che è stata definita “zona delle colline arborate del melfese è stata soprattutto la crisi del settore vinicolo, indebolito anche dal diffondersi della peronospera, e una serie di cattive annate a condizionare la dinamica demografica della zona”[153]. Meta privilegiata per i migranti ripacandidesi è stata la cittadina di Blue Island, nella contea di Cook in Illinois, che dal 2006 è gemellata con il comune italiano sulla base di un accordo, firmato negli USA il 12 agosto (ricorrenza della festa di San Donato, protettore di Ripacandida che viene oggi ricordato anche a Blue Island) in occasione della visita di una nostra delegazione. La prima festa di San Donato è stata celebrata a Blue Island nel 1909. Oggi la parrocchia di San Donato è sempre meno italiana. Da qualche anno in testa alla processione la statua del santo è affiancata, oltre che dalla tradizionale bandiera italiana, da quella messicana. La Ripacandida dell’Illinois è diventata multietnica.

Altre comunità di lucani si trovano in varie parti del mondo. A Brooklyn, approdo storico dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti all’inizio del Novecento, si celebravano le grandi feste della “Società aviglianese di mutuo soccorso” di New York[154]. Oggi è ormai impossibile rintracciare nella città vere e proprie comunità di lucani.

Alla fine dell’Ottocento “furono molti gli italiani reclutati dalla Denver and Rio Grande Western Railroad per la realizzazione della grande strada ferrata che percorrendo migliaia di chilometri avrebbe portato il treno fin sulle montagne del Colorado, fino ad allora regno incontrastato di mandriani e terreno conteso dalle grandi società minerarie per lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo”[155]. Non mancarono i lucani. Nell’area nord di Denver, capitale del Colorado, conosciuta da decenni come Little Italy, ha sede la Potenza Lodge fondata nel 1899 la cui ragione sociale è “Società dei nativi di Potenza, Basilicata”. Ogni anno si celebra la festa di San Rocco, protettore dell’associazione, che è famosa in tutta la città.

Genk è una delle principali città “italiane” del Belgio. Oggi conta, su una popolazione complessiva di circa sessantaseimila abitanti, diecimila italiani. A poca distanza si trovano le grandi miniere dove, dallo storico accordo del 1946 tra i governi belga e italiano, fino alla fine degli anni Ottanta, tanti lucani hanno combattuto quella battaglia del carbone che gli operai belgi si rifiutavano ormai di combattere. Sono arrivati, sfuggendo ad un inesauribile destino di braccianti poveri, dai comuni, tutti della provincia di Potenza, di Muro Lucano, Genzano di Lucania, Montemilone e Palazzo San Gervasio la cui popolazione residente complessiva tra il censimento del 1951 e quello del 1981 si è sensibilmente ridotta[156].

Oppido Lucano, altro comune della provincia di Potenza, è dal 2004 gemellato con Iquique città del Cile settentrionale, capitale della Regione di Tarapacà, che oggi conta quasi 200 mila abitanti. Attualmente sono circa duemila i lucani, in gran parte provenienti da Oppido (nel centro della cittadina c’è “piazza Iquique”) che, a partire dall’inizio del Novecento, si sono stabiliti in questa città.

Da ultimo segnalo il caso di Paterson, una grigia cittadina industriale nella parte settentrionale del New Jersey, a non più di una trentina di miglia da New York, che è stato l’approdo americano di centinaia di famiglie di Montescaglioso, comune della provincia di Matera, fin dalla fine dell’Ottocento.

Calabria

Tra il 1876 e il 1976 sono emigrate dalla Calabria quasi due milioni di persone, cifra non dissimile dall’attuale popolazione residente nella regione. Si tratta di circa il 7,5 per cento degli espatri complessivi ed in proposito si deve sottolineare che tale percentuale è doppia rispetto a quella relativa al peso demografico della Calabria sul totale nazionale. Come è stato osservato “definire la Calabria come terra di emigranti non è un’iperbole. Quasi tutte le trattazioni sull’argomento, insieme con i numeri, attestano che la regione, in rapporto alla popolazione, può essere classificata ai primi posti tanto che a ben ragione si può concordare con quanto proponeva Gerhard Rohlfs, escursionista tedesco e studioso di chiara fama, che al topòs della Calabria terra di briganti- uno stereotipo che, negli anni di fine Ottocento, era ormai in fase calante – si poteva sostituire quello della Calabria terra di emigranti[157].

L’emigrazione calabrese comincia a crescere prepotentemente negli ultimi anni dell’Ottocento quando si registra la netta preferenza dell’emigrazione italiana per le mete transoceaniche. La grande maggioranza degli espatri (780.170 unità su 879.031) concerne infatti tre paesi: Stati Uniti, Argentina e Brasile.

Venendo al tema qui affrontato, mi limito a segnalare rispetto al primo paese, che la città di Fort Lee nel New Jersey è stato il centro che ha riunito la maggior parte degli emigrati da Bagnara Calabra (i bagnaresi formarono una colonia anche a Brooklyn) e che, sempre nel New Jersey, a Ocean City si sono stabilite molte famiglie provenienti da Maida in provincia di Catanzaro. Quanto ai due paesi dell’America Latina, va precisato che gli emigranti italiani provenienti dalla Calabria hanno incontrato maggiori difficoltà rispetto ai flussi precedenti nell’acquisizione di terreni agricoli. Il loro insediamento ha riguardato soprattutto le grandi città: il quartiere di Bexiga a São Paulo era ad esempio la Little Italy dell’emigrazione calabrese. Merita comunque di essere ricordato che migranti provenienti da due comuni montani della provincia di Cosenza (Morano Calabro e Laino Borgo), hanno creato due comunità in Brasile, una, quella dei moranesi, a Porto Alegre e l’altra a Salvador de Bahia[158]. I moranesi fecero in ogni caso comunità anche a Barranquilla, a San José di Costa Rica e nella guatemalteca Quetzaltenango. Tra il censimento del 1881 e quello del 1911 la popolazione residente in questo comune scende da 9.974 a 5.743 unità. La colonia italiana di Santo Domingo arriva dal piccolo comune di Santa Domenica Talao, sempre della provincia di Cosenza. I 30 migranti di San Giovanni in Fiore, altro comune del Cosentino, deceduti nella già ricordata sciagura mineraria di Monongah, negli Stati Uniti, fanno pensare ad un’altra comunità generata dalle catene migratorie.

Il 29 novembre di ogni anno la festa di Sant’Andrea Apostolo, oltre che nell’omonimo comune della provincia di Catanzaro, si celebra anche in una chiesa di Montreal su iniziativa di una locale associazione calabrese che porta il nome del Patrono della cittadina della quale sono originari.

Nel secondo dopoguerra c’è stata una forte ripresa dell’emigrazione italiana verso i paesi europei e la comparsa di nuove mete transoceaniche tra le quali spicca il caso dell’Australia. In quest’ultimo paese è la provincia di Reggio Calabria a guidare la graduatoria delle province italiane che hanno alimentato questo flusso migratorio[159]. I calabresi di Platì li ritroviamo nella città di Griffith nel New South Wales e quelli di Caulonia ad Adelaide[160]. Per l’Europa occorre citare nuovamente Morano Calabro i cui emigranti si stabilirono in buon numero a Bous, un paese della provincia di Saarlouis, per l’appunto in Saar[161].

Nel secondo dopoguerra si formò a Toronto, in Canada, come era avvenuto in altre metropoli, una Little Italy, un’area geografica prossima al centro della città, chiusa tra College Street e Dundas Street, abitata esclusivamente da nostri connazionali. Al suo interno nacque una Little Rende, spalmata tra le vicine streets di St. Clair, Dufferin, Bloot, Dupont, Dundas, Keel, Dovercourt, St. Clarence, Lappin, Lansdowne e Eglinton, nella quale si stabilirono migranti provenienti dal comune cosentino[162].

Migranti provenienti dal comune di Bivongi, facente parte della città metropolitana di Reggio Calabria e gemellato dal 2012 con La Plata, hanno costituito, soprattutto nel secondo dopoguerra, una piccola comunità nella città argentina che festeggia Santa Maria Santissima Mamma Nostra in corrispondenza della sagra che si svolge la seconda domenica di settembre nel paese di origine[163]. Ancora una volta si ripropone il tema delle feste religiose all’estero spesso sentite e riproposte dagli emigranti “come difesa dall’opprimente struttura del produttivismo e riaffermazione della propria identità in una società così estranea alla loro”[164].

Le antiche comunità albanesi in Italia sono in particolare concentrate in provincia di Cosenza. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, da quattro comuni di questa provincia (Terranova di Sibari, Vaccarizzo Albanese, San Demetrio Corone e Santa Sofia d’Epiro) è iniziata una emigrazione sempre più consistente verso l’Argentina che aveva come meta la città di Lujan nella provincia di Buenos Aires. La cultura arbëreshë ha così avuto modo di entrare nel paese sudamericano[165].

Nel New Jersey (USA), accanto alla comunità di migranti provenienti da Bagnara Calabra (Reggio Calabria) insediatisi a Fort Lee ed a quella di altri migranti calabresi di Maida (Catanzaro) che si sono stabiliti a Ocean City (entrambe già segnalate), va ricordata quella creata a Trenton da migranti provenienti da Bisignano (Cosenza) che vi fondarono la Società di Mutuo Soccorso “San Francesco di Paola” che nel comune calabrese è festeggiato non solo il 2 aprile ma anche il 14 luglio per la protezione accordata agli abitanti in occasione del terremoto del 1767[166].

Con riferimento a flussi migratori del secondo dopoguerra, la cittadina di Bisignano va altresì chiamata in causa per il gemellaggio firmato nel 2005 con il comune di Feldkirchen situato nella periferia di Monaco di Baviera: i numerosi italiani che lavorano per un’importante industria dell’area sono quasi tutti oriundi di Bisignano.

Nei primi dieci anni del Novecento gli espatri dalla Calabria sono pari al 20,7 per cento del totale degli emigranti della regione tra il 1876 e il 1976.

“Nel 1882 Cosenza occupa il primo posto fra le altre province del Regno, posto che conserva quasi sempre negli anni successivi, essendo solo superata per alcuni anni da Potenza e Salerno…Gli italiani abitanti a Rio del Janeiro sono quasi esclusivamente di Cosenza seguita dalle due province appena citate”[167]. Tra i comuni della provincia calabrese, quelli che danno il maggiore contributo sono Fuscaldo, Morano Calabro, San Demetrio Corone e San Fili.

Brattirò è una frazione del comune di Drapia, in provincia di Vibo Valentia. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo, ci sono stati in questa frazione 765 emigranti, 694 sono andati a trovare lavoro e fortuna in Argentina. Il culto dei Santi Cosma e Damiano, che nella comunità di Brattirò è intenso (nella loro chiesa è conservata una reliquia dei due santi: è parte di un mantello di colore verde custodita in una teca do argento), non conosce confini. Nel mese di settembre, a Buenos Aires, anche i discendenti dei migranti brattiroesi celebrano e festeggiano da diversi decenni i Santi Medici riunendosi nella “Parroquia Ntra. S.ra de los Remedios” nel barrio “Matadores”[168].

Sicilia

Il ruolo della Sicilia nell’emigrazione italiana è stato assai rilevante. Per gli anni che vanno dal 1876 al 1976 solo Veneto e Campania hanno fornito un contributo maggiore. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento una parte dei suoi flussi in uscita è stato drenato verso le Americhe grazie al ribasso dei prezzi navali e alla tensione politica succeduta alla sconfitta dei Fasci siciliani nel 1893-1894. Un vero e proprio boom si è registrato nel periodo della cosiddetta “grande emigrazione”: nel 1913 le partenze per l’estero originate dalla regione risultano pari a quasi il 17 per cento di quelle nazionali. Merita di essere segnalato che la Sicilia, gravitando nel Mediterraneo, ha avuto un suo “sfogo” migratorio in Africa, in particolare in Tunisia[169]. Nel secondo dopoguerra l’ondata migratoria è proseguita e sono state le province di Caltanissetta e di Agrigento quelle con il maggior numero di emigranti.

Venendo al tema preso in esame, mi piace ricordare quanto si è sostenuto anche con riferimento ai flussi in uscita generati da questa regione: “Le partenze degli emigranti sono sempre avvenute, per così dire, a catena. Prima partono i più intraprendenti, poi i parenti più prossimi, seguono gli amici e i familiari, infine quanti si raccomandano ai primi partiti di trovar loro un’occupazione, un lavoro. Così si sono formati grossi nuclei in questa o quella comunità di emigrati provenienti dallo stesso comune di origine, rimasto pertanto dimezzato”[170].

Riservato un breve cenno al piccolo nucleo di pescatori dell’isola di Marettimo nelle Egadi migrati a Monterey in California dove portarono avanti la loro attività, segnalo, tra le varie comunità fondate negli Stati Uniti da quanti vi si trasferirono dal comune di Augusta in provincia di Siracusa, quella insediatasi nel North End di Boston che diede vita all’”Augusta Fraternal Associates” che si distinse nella raccolta di fondi per cause filantropiche e caritatevoli[171]. Altri emigranti siciliani provenienti da quattro piccoli comuni della provincia di Agrigento (Alessandria della Rocca, Bivona, Cianciana e Santo Stefano Quisquina), inizialmente occupati nelle piantagioni di canna da zucchero di St. Cloud, in Florida, crearono poi una “colonia” a Tampa, inserendosi nella lavorazione del tabacco. Per quanto riguarda l’emigrazione dalle isole Eolie, riservo sintetici cenni alla comunità creata a Norwich, nell’Upstate di New York, dai liparesi cavatori di pomice che si trasformarono in minatori delle cave di Blue stone, ed a quella che ad Oswego, sul lago Ontario, gli stromboliani formarono per le attività di trasporto marittimo delle merci da e per i porti lacustri canadesi[172]. Segnalo altresì il caso di 253 famiglie della Sicilia orientale che, reclutate da un faccendiere catanese, approdarono in Paraguay nel 1898 per dar vita ad una Colonia Trinacria nel distretto di Santa Clara a 400 chilometri da Asunción e poi trasferitesi nei pressi della capitale definita “la più siciliana del mondo”[173]. Ed ancora quello di 100 famiglie di Barcellona Pozzo di Gotto che nello stesso 1898 si trasferirono alle porte della Patagonia per costruire Puerto Belgrano: si stanziarono a 50 chilometri da Bahia Blanca e fondarono la città di Punta Alta riproducendo case, quartieri e persino la chiesa del paese di provenienza.

La Germania ha avuto un forte peso nell’emigrazione siciliana del secondo dopoguerra: in una cittadina non lontana da Stoccarda si è stabilito un folto gruppo di migranti originari di uno stesso paese del Calatino in provincia di Catania[174].

A cambiare le sorti del comune di Lercara Friddi, in provincia di Palermo, è stata la scoperta dello zolfo che lo ha reso un importante centro minerario incentivandone la crescita demografica nella seconda parte dell’Ottocento. Al censimento del 1901 si è raggiunto il massimo popolamento con 13.562 abitanti. Nel 1951 avvenne nella miniera un grave episodio: morì un ragazzo di 17 anni schiacciato da un masso caduto dalla volta di una galleria. Seguì uno sciopero contro le difficili condizioni lavorative che si protrasse nel tempo. Le attività del bacino minerario chiusero definitivamente nel 1969.

Circa trecento lercaresi sono emigrati a Liegi in Belgio probabilmente attratti dalla possibilità di trovare lavoro nel grande bacino carbonifero della città dove avrebbero potuto far valere la loro esperienza professionale. La popolazione residente accertata dal censimento del 1961 risulta pari a 11.872 abitanti, numero che è fortemente diminuito negli anni successivi[175].

Il comune montano di Biancavilla (Catania) è dal 2010 gemellato con Gap (capoluogo del dipartimento Hautes Alpes in Provenza al confine con l’Italia, con circa 40 mila abitanti). Come ha ricordato Giuseppe Glorioso, sindaco di Biancavilla dal 2008 al 2018, il flusso migratorio verso Gap è iniziato verso il 1950 (sono oggi circa 120 le famiglie di origine biancavillese che vi risiedono)[176]. Il loro obiettivo era quello di cercare lavoro facendo leva su una tradizione artigianale nel campo dell’edilizia. I nostri emigranti si sono pienamente integrati nel tessuto sociale, culturale ed economico della cittadina francese (vi è stato persino un assessore comunale originario di Biancavilla). San Placido, patrono e protettore di Biancavilla dal 1709, è oggi festeggiato anche a Gap.

In Belgio, a Namur capitale della Vallonia con oltre 100 mila abitanti, vive oggi una comunità di più di 2 mila adraniti originata per l’appunto da un flusso migratorio dei primi anni del secondo dopoguerra proveniente dal comune montano di Adrano, anche questo in provincia di Catania[177]. Tale flusso è da ricollegare all’Accordo tra l’Italia e il Belgio (in particolare al Protocollo di emigrazione Italo-Belga del 26 aprile 1947 che assicurava tra le altre cose il trasferimento dei migranti italiani da impiegare nelle miniere della regione belga e ne garantiva le condizioni di lavoro)[178].

Nei comuni di Sant’Alfio e Piedimonte Etneo, pure questi in provincia di Catania, si è a lungo prodotto il tradizionale “vino rosso dell’Etna” che ha riscosso molto successo anche sui mercati esteri. La distruzione dei vigneti a causa della filossera nella seconda metà dell’Ottocento ed il successivo crollo del prezzo del vino, dovuto anche alla depressione abbattutasi sui mercati finanziari verso la fine del secolo, costrinsero molti contadini all’espatrio.

All’inizio del Novecento furono molti quelli che decisero di emigrare in Australia imbarcandosi sui piroscafi allora in partenza dal porto di Messina in ginocchio dopo il terremoto del 1908. Trovarono in gran numero impiego nelle piantagioni di canna da zucchero nella parte settentrionale del Queensland stabilendosi in particolare a Tully dove si formò un’importante comunità siciliana alimentata nel tempo da nuovi arrivi.

Di recente c’è stato il gemellaggio dei due comuni siciliani con le cittadine australiane di Tully e Innisfail[179]. La festa dei tre patroni di Sant’Alfio (Alfio, Filadelfo e Cirino che nel 253 d. C. furono deportati dalla Spagna per essere martirizzati) è oggi celebrata nella prima domenica di maggio anche in numerose chiese della regione del Cassoway Coast che ha accolto i migranti siciliani.

“Gli emigranti siciliani di uno stesso centro abitato, anche se partivano in tempi diversi, preferivano concentrarsi all’estero in un’unica località; allo stesso modo nelle grandi città del continente americano si venivano addensando quartieri che s’identificavano con gli originali paesi d’immigrazione”[180].

Il contributo della Sicilia è stato importante soprattutto fra il 1901 e il 1915 (1.126.513 partenze su un totale di 8.769.749 la collocano al primo posto fra le regioni italiane). “Il paradigma della grande emigrazione comprende crisi espulsive e fattori attrattivi esterni, con l’azione potente delle catene di richiamo”[181]. È quanto accaduto con i migranti di Trecastagni, comune della provincia di Catania, che all’inizio del Novecento si sono insediati a Lawrence, nel Massachusetts.

La città di Middletown, nella contea di Middlesex nel Connecticut, ha visto la creazione nel giro di pochi anni di un quartiere denominato Little Melilli, un comune della provincia di Siracusa che agli inizi del Novecento ha alimentato un’intensa catena familiare di emigrazione[182]. Si ritiene che una parte non trascurabile degli attuali abitanti (circa 50 mila) della città americana abbia antenati di origine melillese[183]. Un “gemellaggio” celebra oggi il legame tra la città americana e il comune italiano che negli anni Settanta è diventato un importante polo petrolchimico (la popolazione residente è passata dai 9 mila abitanti del 1971 agli attuali 14 mila).

Di una piccola comunità di nostri migranti (un clan di fratelli e cugini impegnati nel commercio di frutta e verdura) provenienti dal comune di Cefalù, in provincia di Palermo, insediatisi nella cittadina di Talullah in Lousiana, si ha notizia perché molto si è scritto del linciaggio immotivato e feroce di cinque componenti del gruppo[184] (la stessa sorte è toccata negli Stati Uniti a 3.220 neri e a 723 bianchi in buona parte immigrati italiani)[185].

La città canadese di Hamilton (più di 500 mila abitanti) nell’Ontario meridionale ha per tre generazioni ospitato più di 15 mila migranti provenienti dal comune di Racalmuto, in provincia di Agrigento che conta oggi una popolazione di circa 8 mila residenti (pure in questo caso un “gemellaggio” firmato nel 1986 unisce i due centri).

Tra le varie collettività siciliane insediatesi negli Stati Uniti (New York, New Orleans, Boston) “è quella di New Orleans che presenta più evidenti i caratteri e le componenti isolane per la sua preminenza tra i gruppi regionali….L’inizio della colonia siciliana in New Orleans si colloca all’indomani dell’abolizione della schiavitù nel Sud per il conseguente bisogno di manodopera bianca particolarmente per il taglio della canna da zucchero, in sostituzione della forza lavoro nera che abbandonava le piantagioni. Ma il rapporto tra Sicilia e New Orleans diventa stretto a seguito del commercio diretto di agrumi da Palermo e Messina: l’emigrazione segue le vie del commercio, secondo l’antica tesi dei liberisti. Nel 1850 vivevano in Louisiana 915 italiani, nel 1870 quasi duemila di cui il 97 per cento siciliani. Nel 1862 Stefano Vaccaro di Contessa Entellina, emigrato a New Orleans due anni prima, riesce ad avviare un importante commercio e produzione di frutta, continuato dai figli Felix e Joseph. Il commercio dell’emigrazione si manifesta invece negli anni ’80 con lo stabilirsi di rotte regolari di navigazione. Nel 1880 il vapore inglese Sciuda partì da Palermo verso New Orleans con 210 emigranti e un carico di limoni. Il vapore Elysia, nel 1887 portò da Palermo a New Orleans 613 emigranti e prodotti locali…”[186]. Si stima che la comunità italiana di New Orleans fosse all’inizio del Novecento per oltre il 90 per cento di provenienza siciliana. Tra I comuni siciliani rappresentati, un posto di rilievo spetta a Contessa Entellina, in provincia di Palermo (va segnalato che la sua popolazione residente è scesa, tra il censimento del 1861 e quello del 1921, da 3.364 a 1.911 abitanti). Merita di essere riferito che la più antica delle società di mutuo soccorso, la “Contessa Entellina”, fondata nel 1866, contava all’inizio del Novecento quasi 600 soci.

Negli stessi anni le famiglie italiane stabilitesi ad Independence nel Missouri provenivano quasi tutte da Palazzo Adriano (Palermo): nel 1910 risultavano risiedere nella colonia tra le 1.100 e le 1.400 persone, per un numero complessivo di 250 famiglie, tutte siciliane.

Il dirottamento del flusso migratorio verso lo stato del Texas fu portato avanti da innumerevoli progetti di colonizzazione nati nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, realizzati soprattutto nella zona centro-meridionale. Caso emblematico è stato quello della colonia agricola Bryan, fondata intorno al 1880 da operai siciliani impiegati nella costruzione di un tronco della Houston & Texas Railroad. Le famiglie siciliane provenivano da Poggioreale (Trapani), da Corleone e dalla già ricordata Cefalù (Palermo). Va pure ricordata l’altra colonia della contea di Burleston nella quale si sono insediati migranti provenienti da Caccamo (Palermo) e Partanna (Trapani)[187].  

Bedford, capoluogo della contea del Bedfordshire, sorge a NO di Londra sul fiume Ouse. Tra il 1951 e il 1957 si stanziarono stabilmente in questa città oltre 6.000 italiani reclutati attraverso i canali formali, ai quali vanno aggiunti coloro che arrivarono attraverso le catene e i ricongiungimenti familiari che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, divennero numerosi[188]. Mi interessa in particolare segnalare l’antica presenza nell’area di migranti siciliani che nel tempo hanno sviluppato attività redditizie nel settore del vetro e delle spugne. Questi nuovi industriali preferiscono impiegare nelle loro fabbriche figli di siciliani già residenti nella città inglese, ma quando la richiesta di manodopera è superiore all’offerta in loco, invece di assumere migranti di altra provenienza, preferiscono richiamare dal paese di origine, Sant’Angelo Muxaro (Agrigento), giovani siciliani in cerca di occupazione. Mossi dalla volontà sia di creare un ambiente lavorativo culturalmente omogeneo sia, soprattutto, di aiutare il proprio paese a cui sono ancora molto legati, perpetuano lo stesso sistema di reclutamento che aveva coinvolto già i propri genitori. I nuovi migranti siciliani, quindi, arrivano a Bedford già con un lavoro in mano e, dopo i primi mesi trascorsi in Inghilterra da soli, si fanno raggiungere dalla famiglia, secondo un modello canonizzato e presente a Bedford da oltre cinquanta anni[189].

Sempre nel secondo dopoguerra, il comune di Sutera (Caltanissetta) ha avuto in Sicilia uno dei più forti tassi di emigrazione: la popolazione si è ridotta di più della metà. Tra il censimento del 1951 e quello del 2011 la popolazione residente è passata da 4.681 a 1.436 abitanti. “Questa diminuzione è stata causata da una massiccia emigrazione che è cominciata nel 1955 con il reclutamento di minatori per le miniere francesi, di lavoratori edili per la Germania nel 1956 e di lavoratori agricoli per la Gran Bretagna nel 1957-58”[190]. Oggi il comune siciliano, che fa parte del circuito dei borghi più belli d’Italia, è gemellato con le cittadine di Broxbourne (contea dell’Hertfordshire in Inghilterra) e di Dillingen (nel Saarland in Germania) dove si sono insediate piccole comunità di suteresi.

Sardegna

“L’emigrazione sarda parte da una regione a bassa densità demografica, anzi da una delle regioni italiane più sottopopolate e incide su una struttura e una dinamica insediative già di per sé carenti e alterate, inducendo la desertificazione del tessuto rurale, ove si registrano fenomeni cumulativi e circoli viziosi che si esasperano intorno all’isolamento, costante significativa del quadro socio-fenomenologico dell’isola”[191].

Tra il 1876 e il 1925 si sono registrati circa 125 mila espatri, con un’accelerazione tutta novecentesca. Nel decennio 1876-85 gli emigranti sono stati 47 su 10 mila abitanti in Italia e 1,5 in Sardegna[192]. Sino all’ultimo decennio dell’Ottocento, l’emigrazione ha infatti rappresentato per l’isola un fenomeno di scarso rilievo. Essa ha presentato un comportamento che si è discostato da quello delle altre regioni meridionali, assimilandosi invece alle tendenzialità espresse dal Settentrione. Dal 1900 al 1904 vi è stata una corrente emigratoria quasi esclusivamente diretta verso i porti di Tunisi e di Bona dovuta all’insediamento degli impianti caseari che hanno spinto i sardi all’abbandono delle colture terriere aleatorie per il reddito sicuro della pastorizia. Come mete di destinazione hanno poi prevalso Francia e Argentina.

Il secondo dopoguerra è stato caratterizzato dalla netta prevalenza delle mete europee con la Germania a guidare la graduatoria[193]. Mentre nella prima fase il contributo all’emigrazione è stato fornito principalmente dalla parte nord-occidentale dell’isola, negli anni Cinquanta del Novecento i flussi in uscita non hanno avuto un’origine rurale. Hanno riguardato i centri industrializzati del Sulcis-Iglesiente. Il calo del prezzo di piombo e zinco e la diminuzione dello smercio del carbone del Sulcis, sono state le cause principali della crisi mineraria di quegli anni e delle successive partenze[194].

Sembra che in Sardegna non ci sia traccia di comuni che con i propri emigranti abbiano creato una loro comunità all’interno di una specifica località del paese estero che li ha accolti. Il fatto non desta in realtà particolare sorpresa. La regione non ha alimentato flussi in uscita particolarmente consistenti generati per lo più da comuni di piccole dimensioni. Si consideri inoltre che tra il 1905 e il 1976 si sono contati in Sardegna circa 100 mila rimpatri (66.146 nel secondo dopoguerra)[195]. Nel 1896 e nel 1897 si sono registrate oltre 5 mila partenze dalla Sardegna per il Brasile mentre quelle per il resto del mondo non sono state più di ottanta. Dopo un viaggio di 36 giorni, gli emigranti sardi sono arrivati nel paese sudamericano “in uno stato di tale avvilimento ed indigenza da essere facilmente preda di fazenderos e di mineiros che assumevano personale con salari di fame”. La dispersione in uno spazio immenso (lo stato di Minas Gerais ha una superficie di poco inferiore a quella della penisola iberica) e la rigidità delle abitudini hanno determinato il rientro delle famiglie sarde nel giro di venti mesi[196].

In due scritti che prendono in considerazione il percorso migratorio di quanti sono partiti dai comuni di Carloforte[197], sull’isola di San Pietro, e Guspini[198], entrambi in provincia di Cagliari, sono raccontate le storie di singoli nuclei familiari che si sono insediati in diversi ambiti senza perciò che si creassero le condizioni per la nascita di una seppur piccola comunità[199]. Sono nate in taluni paesi associazioni di sardi ma il vincolo è stato quello dell’”insularità”.

Brevi considerazioni conclusive

Sulla base delle vicende migratorie che ho richiamato, ritengo che l’effetto prodotto dalle “catene migratorie” (in sintesi “richiamo di congiunti e compaesani”) non possa sicuramente essere messo in discussione. L’esperienza degli emigranti campani di Pontelandolfo a Waterbury, quella degli emigranti marchigiani di Sant’Angelo in Vado a Mar del Plata e quella dei migranti pugliesi di Corato a Grenoble lo certificano ad esempio in modo netto anche perché in questi casi si è trattato di flussi che si sono protratti per decenni.

Ciò detto, va però precisato che dal legame tra luogo di partenza e luogo di destinazione non si può sempre desumere in modo automatico l’esistenza di catene migratorie. Nel caso dei migranti veneti insediatisi a Chipilo, in Messico, non si può certo parlarne. Si è infatti trattato del trasferimento di “gruppi familiari” nei quali a mio avviso c’era piena consapevolezza del duro lavoro da svolgere nella fase iniziale (la prima necessità è stata quella di costruire delle case) della complessità del viaggio e, soprattutto, delle difficoltà che si sarebbero incontrate per l’eventuale acquisizione di ulteriori terreni.

Le cosiddette “catene migratorie professionali” sono da mettere principalmente in relazione con l’emigrazione temporanea. Poiché in questo caso viene esclusa, almeno in via di principio, la possibilità di un insediamento definitivo nel paese estero raggiunto per ragioni di lavoro, a questi flussi non ho riservato molta attenzione dal momento che nel propormi di analizzare il legame tra luogo di partenza e luogo di destinazione, intendevo riferirmi a vicende migratorie nelle quali si era realizzato un definitivo trasferimento di residenza.

In quella che è stata definita “età delle infrastrutture”[200], molti emigranti italiani sono stati coinvolti in molti paesi europei (ed anche extraeuropei), in particolare per la costruzione di ferrovie e ciò li ha spesso portati a viaggiare da un paese all’altro, talvolta al seguito di imprese italiane coinvolte nella realizzazione delle opere. Immaginare ricongiungimenti familiari in queste situazioni poteva sembrare azzardato. La realtà però rifiuta spesso eccessivi schematismi. È emerso il caso dei friulani di Clauzetto che, completato un tratto della Transiberiana, hanno deciso di formare una piccola colonia ad Irkutsk in Siberia, quello degli emigranti di Cuggiono che si sono stabiliti a Saint Louis, quello dei vetrai altaresi che dopo aver fondato vetrerie in diversi paesi del Sudamerica, hanno poi creato una loro comunità in Argentina, e quello dei ramai di Rivello in Spagna.

 È da tenere in debita considerazione l’impegno profuso dai nostri emigranti, una volta raggiunto il paese estero di destinazione, nel tentativo di riaggregarsi secondo criteri che privilegiassero la comune provenienza. Nei flussi migratori che hanno riguardato, specialmente negli anni della “grande emigrazione”, metropoli come New York e San Paolo, nella formazione delle distinte Little Italy è prevalso per lo più il vincolo regionale. Mi ha pure colpito la tenacia con la quale, sotto questo profilo, si è organizzato al proprio interno il quartiere abruzzese di Philadelphia. Ho poi ben presenti i casi, anche questi presentati, nei quali i migranti provenienti da singoli comuni sono riusciti a raggrupparsi in aree ristrette (a volte persino una singola strada o un blocco di edifici).

Rispetto alle agenzie di emigrazione, senza entrare in questa sede nel merito del loro ruolo (mi riferisco all’attività dell’”agente” Frank Di Berardino nella città di Philadelphia), mi limito a ricordare il tentativo operato con la legge 30 dicembre 1888, n. 5866 e la successiva 30 gennaio 1901, n. 23, di regolamentare il loro rapporto con le compagnie di navigazione che hanno tratto buona parte dei loro guadagni proprio dal traffico degli emigranti.

Sull’emigrazione si dispone di un’amplissima bibliografia ma sono dell’avviso - e concludo – che sui meccanismi che hanno riguardato i flussi che si sono diretti verso mete di secondaria importanza, tornerebbero utili ulteriori riflessioni per chiarirne meglio i contorni.

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[1] Cfr. Golini e Amato, 2001.

[2] Cfr. Cortese, 2015.

[3] Cfr.Maida, 2015, p. 66.

[4] Cfr. Allio, 1984, p.121.

[5] Cfr. Corazza, 1995 e Lambert-Pietri, 1999.

[6] Cfr. Bernardy, 1912.

[7] Cfr. Tourn, 1906 e Frescura, 1907.

[8] Cfr. Libert, 2016.

[9] Fu lo stesso Alfred Nobel, inventore della dinamite, a costruire nel comune uno dei più importanti stabilimenti di produzione della dinamite in Italia.

[10] Cfr. Carlesso, 2009, p.332.

[11] Cfr. Rainero, 2000, p. 99.

[12] Si tratta di una pietra sedimentaria silicea, a spaccatura piatta, a tessitura cellulare, piena di cavità irregolari, riempite da argilla ferruginosa, dura, leggera, inalterabile. Unita al cemento, essa costituisce un materiale resistente, estremamente malleabile e dalla plasticità perfetta per costruire muri, archi dei ponti, volti delle gallerie.

[13] Cfr. Cortese, 2017a e Grendi, 1984.

[14] Cfr. Bernardy, 1912.

[15] Cfr. Grendi, 1984.

[16] Cfr. Celi, 2010.

[17] Cfr. Audenino, 2006.

[18] Cfr. Audenino, 2006, p. 29.

[19] Cfr. Salati, 2010, p. 31.

[20] Cfr. Cortese, 2016.

[21] Cfr. Salati, 2010.

[22] Cfr. Milani, 1995 e Cortese, 2016.

[23] Attualmente, ad esempio, i comuni dell’entroterra chiavarese conservano mediamente il 50 per cento della popolazione censita nel 1871.

[24] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009 e Fasce, 2006.

[25] Cfr. Surdich, 1989, p. 49.

[26] Cfr. Fasce, 1989.

[27] Cfr. Saroldi, 2015.

[28] Un certo numero di emigranti trentini è stato ad esempio coinvolto nella costruzione di una linea ferroviaria in Texas alla quale ho riservato brevi cenni quando mi sono occupato dell’emigrazione lombarda.

[29] Cfr. Leoni, 1991.

[30] Cfr. Cristaldi, 2011, p. 68.

[31] Cfr. Bozzato, 2008.

[32] Cfr. Franzina, 2005 e Cortese, 2018b.

[33] Cfr. Barzan, 2017, p. 22.

[34] Cfr. Brustolin, 1991 e Klicek, 2005.

[35] Cfr. Zago Bronca e Secco, 2004 e De Vecchi, 1987.

[36] Cfr. Sartor e Ursini, 1983.

[37] Cfr. Nardi, 2021.

[38] Cfr. Grendi, 1984.

[39] Si è non a caso scritto “laggiù mancano le braccia ai terreni, qui mancano terreni alle braccia” (si veda Aa. Vv., 2020, p. 10).

[40] Cfr. Trento, 2002.

[41] Cfr. Andrich, 2016.

[42] Cfr. Da Roit, 1999, p. 39.

[43] Cfr. Galli e Burigo, 2016.

[44] Cfr. Piccoli Henz, 2021. Segnalo inoltre la pubblicazione nel 2022 sulla Rivista “Bellunesi nel Mondo” di un articolo sul gemellaggio.

[45] Cfr. Casarotto, 2020, p. 505.

[46] Cfr. Conte, 2021.

 

[48] Cfr. Cristaldi, 2015, p. 55.

[49] Cfr. Lancaster Jones, 1964.

[50] Cfr. Conte, 2021.

[51] Cfr. Palla, 2021.

[52] Cfr. Petronio, 2019.

[53] Cfr. Carniel, 2022, pp. 12 e 13.

[54] Cfr. Palla, 2021.

[55] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009 e Lorenzon e Mattioni, 1962.

[56] Cfr. Verrocchio, 2003, p. 191.

[57] Cfr. Micelli, 2003, p. 37.

[58] Cfr. Barachino, 2012.

[59] Cfr. Boz e Grossutti, 2009.

[60] Cfr. Sicurella, 2008, p. 75.

[61] Cfr. Bartolomé, 2009, p. 170. Rinvio anche a Donato e Nodari, 1995.

[62] Cfr. Istat, 1994.

[63] “La caratteristica più saliente della emigrazione friulana in passato, è stata la temporaneità o meglio la stagionalità della stessa” (cfr. Lorenzon e Mattioni, 1962, p. 25).

[64] Cfr. Chialchia, 2022.

[65] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009.

[66] Cfr. Martini, 1995.

[67] Cfr. Fincardi, 2006.

[68] Cfr. Capuzzi, 2006.

[69] Cfr. Ridolfi, 2019, p.29.

[70] Cfr. Paletti, 2012.

[71] Cfr. Boncompagni, 2006. Nei documenti francesi gli emigranti toscani sono generalmente definiti “lucchesi” con senso per lo più dispregiativo (cfr. Ostuni, 2006).

[72] Cfr. Pomponi, 1988.

[73] Cfr. Dottori, 1988.

[74] Cfr. Comune di Anghiari, 2006.

[75] Cfr. Guerra, 2000a, p. 10.

[76] Cfr. Guerra, 2000b.

[77] Cfr. Guerra, 2000c.

[78] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009, p.371.

[79] Cfr. Tosi, 1988.

[80] Cfr. Fofi, 1988. Come ho più sopra ricordato, Villerupt è gemellato con Aulla in provincia di Massa-Carrara.

[81] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009, p. 371.

[82] Cfr. Tosi, 1988.

[83] Cfr. Lucarini, 2008.

[84] Lo spopolamento dell’Appennino ha colpito in particolare la provincia di Perugia.

[85] Cfr. Gerli, 2020, p. 448. Rinvio anche a Colucci, 2012.

[86] Cfr. Rinaldetti, 2013.

[87] Cfr. Cecchini, 2014, p. 125.

[88] Cfr. Bartolucci e Pastoriza, 2003, p. 79.

[89] Cfr. Baily, 1982.

[90] Cfr. Gobbi, 2011, p. 16.

[91] Cfr. Graciotti, 1998.

[92] Cfr. Cittadini, 1998.

[93] Cfr. Cortese, 2017b e Protasi, 2010.

[94] Cfr. Santulli, 2011.

[95] Cfr. Protasi, 1999.

[96] Cfr. Vial, 2002.

[97] Cfr. Aa.Vv. 2010.

[98] Cfr. Protasi, 2010, p. 37.

[99] Cfr. Cortese, 2018a.

[100] Cfr. Colucci e Sanfilippo, 2006, p. 116.

[101] Cfr. Cortese, 2017b.

[102] Cfr. Chistolini, 1986, p. 30.

[103] Cfr. Orsini, 1991.

[104] Cfr. Bove, 2007.

[105] Cfr. Cortese, 2017b.

[106] Prendo spunto principalmente dal libro di Bove già citato.

[107] Cfr. Sitta, 1894.

[108] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009. Rinvio pure a Sanfilippo, 2013.

[109] Cfr. Melocchi, 1919, p. 3.

[110] Cfr. De Nardis, 1994a.

[111] Cfr. De Nardis, 1994b.

[112] Si veda Di Lello, 2020.

[113] Il Consolato del Canada è stato presente a Sulmona dal 1998 al 2007.

[114] Cfr. Lombardi, 2010.

[115] Cfr. Simoncelli, 1969.

[116] Cfr. Massullo, 2017, p. 18. Per maggiori dettagli rinvio ad altro scritto dello stesso autore (cfr. Massullo, 1994) e a Gandolfo, 1988.

[117] Cfr. Baily, 1982.

[118] Cfr. D’Andrea, 2017, p. 8.

[119] Cfr. Narducci, 2020.

[120] Cfr. Massullo, 2006.

[121] Cfr. Lombardi, 2010, p. 38.

[122] Cfr. Cortese, 2022.

[123] Cfr. Lariccia e Tucciarone, 2019.

[124] Cfr. Di Rienzo, 2019.

[125] Cfr. Castellotti, 2017.

[126] Cfr. Castellotti, 2017, p. 11.

[127] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009.

[128] Cfr. Trani, 2012.

[129] Cfr. Esposito, 2011.

[130] Cfr. Fasce, 1989, p. 77.

[131] Cfr. Carchedi, 2005, p. 146.

[132] Cfr. Carchedi, 2005, p. 147.

[133] La Puglia di fine Ottocento era un’area suddivisa in tre grandi province (cfr. Bonerba, 2010).

[134] Cfr. Panunzio, 1972.

[135] Cfr. Rocca, 1905, p. 275.

[136] Cfr. Faidutti-Rudolph, 1988 e Vial, 2002.

[137] Cfr. Pinna, 2018.

[138] Cfr. Lorusso, 1993, p. 19.

[139] Cfr. Lorusso, 1993, p. 22.

[140] Cfr. Tempesta, 1985.

[141] Cfr. Dall’Aste Brandolini, 1902 e Bianca, 1974.

[142] Cfr. Merico, 2018, pp. 10-11.

[143] Cfr. Merico, 2018, p. 13.

[144] Nel 2011 è stato soppresso con altri comuni per formare il comune di Glarona Nord.

[145] Cfr. Merico, 2018, p. 53.

[146] Cfr. Ricciardi, 2011.

[147] Cfr. Cortese e Miccoli, 2019.

[148] Cfr. Gervasio e Leuzzi, 2020, p. 222.

[149] Cfr. Colangelo, 1977, p. 12.

[150] Cfr. Bisceglia, 2017.

[151] Cfr. Cassino, 2015.

[152] Cfr. Lardino, 1989.

[153] Cfr. Lardino, 1989, p. 210.

[154] Cfr. Cantore, 2007 (Avigliano è un comune della provincia di Potenza). Da questo libro traggo anche le notizie che seguono.

[155] Cfr. Cantore, 2007, pp. 50 e 51.

[156] Cfr. Istat, 1994.

[157] Cfr. Masi, 1965, p. X.

[158] Cfr. Cappelli, 2007 e Rocca, 1908.

[159] Cfr. Lancaster Jones, 1964.

[160] Cfr. Cosmini-Rose e O’Connor, 2008.

[161] Cfr. Mainieri, 1997.

[162] Cfr. Zanfino, 2014.

[163] Cfr. Bentoglio, 2020.

[164] Cfr. Rosoli, 1990, p. 406

[165] Cfr. Bolognari, 2014 e Grillo Mauro, 2017.

[166] Cfr. Pane, 1982.

[167] Cfr. Caputo, 1907, pp. 1163 e 1166.

[168] Cfr. Vallone, 2017.

[169] Cfr. Cortese e Licari, 2019.

[170] Cfr. Brancato, 1995, p. 74.

[171] Cfr. Linares, 2010.

[172] Cfr. Saija, 2015.

[173] Cfr. Saija, 2018.

[174] Cfr. Rothenburg-Unz, 1987.

[175] Cfr. Brancato, 1995, p. 74.

[176] Alcuni video sul gemellaggio:

  • https//youtu.be/CBQyCFu8Qjl
  • https//youtu.be/Kj1A78UCqVo

[177] Cfr. www.cittametropilitana.ct.it.

[178] Rinvio a Colucci, 2008.

[179] Cfr. Editrice INFORM-IDG. Srl, N. 92, 8 maggio 2006 e Pinieri, 2003, p. 26.

[180] Cfr. Barone, 2018, p. 403.

[181] Cfr. Messina, 2021, p. 110.

[182] Cfr. Barone, 2018.

[183] Cfr. Cunningham Baldwin, 1984.

[184] Cfr. Deaglio, 2018.

[185] Cfr. Cfr. Stella, 2002.

[186] Cfr. Rosoli, 1988, p. 43.

[187] Cfr. Lombino, 2021.

[188] Cfr. Colucci, 2009.

[189] Cfr. Di Salvo, 2011.

[190] Cfr. Schneider, 1988, p. 76.

[191] Cfr. Rudas, 1974, p. 6.

[192] Cfr. Gentileschi, 1995.

[193] Cfr. Leone-Loi-Gentileschi, 1979.

[194] Cfr. Sanna, 2006.

[195] Cfr. Nicosia e Prencipe, 2009.

[196] Cfr. Lo Monaco, 1965.

[197] Cfr. Aste, 1990.

[198] Cfr. Atzei e Manis, 2006.

[199] Cfr. Aste, 1990.

[200] Cfr. Sori, 2001.

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